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L'Anima, o "Essenza", nel Buddismo: L'Ātman e la sua negazione (Alexander Wynne)

La negazione che un essere umano possieda un "sé" o un'"anima" è probabilmente l’insegnamento buddista più famoso. È certamente il più distinto, come è stato sottolineato da G. P. Malalasekera: “Nella sua negazione di qualsiasi Anima o Sé reale e permanente, il Buddismo è isolato”. Una prospettiva singalese moderna simile è stata espressa da Walpola Rahula: “Il Buddismo è unico nella storia del pensiero umano nel negare l’esistenza di una tale Anima, Sé o Ātman”. [...] Questa comprensione tradizionale è stata accettata dagli studiosi buddisti del passato e del presente. Secondo La Vallée Poussin, il Buddha non accettava “l'esistenza di un Sé (Ātman), un individuo permanente; insegna che il cosiddetto Sé è un composto di dati materiali e spirituali chiamati skandha, cioè la negazione di sé”, e De Jong ha notato che “nel Buddismo primitivo l’impermanenza e la sofferenza implicano la non-esistenza del sé come entità permanente”. [...] L’affermazione che “solo la sofferenza nasce, e solo la sofferenza dura” è simile all’affermazione di Buddhaghosa secondo cui “c’è solo la sofferenza, ma nessuno che soffre”, e all’affermazione secondo cui “la persona che sperimenta la sofferenza non esiste”: tutti presuppongono che non ci sia alcun “fantasma” nella macchina. Tale comprensione è stata riassunta da T. W. Rhys Davids come segue: “L’uomo non è mai lo stesso per due momenti consecutivi, e non esiste in lui alcun principio duraturo”. Secondo questa definizione, e a seconda della propria prospettiva, la dottrina potrebbe essere interpretata nel senso che una persona non ha “anima” (nel senso di una “parte spirituale dell'uomo in contrasto con quella puramente fisica”), oppure che una persona è priva di un'identità intrinseca, quella che potrebbe essere chiamato “sé” (nel suo semplice senso filosofico di “ciò che una persona è realmente e intrinsecamente in contrapposizione a ciò che è avventizio)”. Data la stretta corrispondenza tra Vajirÿ Sutta, Buddhaghosa, Āntideva e le più recenti autorità buddiste sopraccitate, questa comprensione sembrerebbe essere stata la norma nei circoli buddisti per oltre duemila anni. Infatti l'attestazione di questa idea in un testo canonico significa che essa può essere ricondotta molto probabilmente al periodo pre-Aÿokan, cioè entro circa 150 anni dalla morte del Buddha. 

Nonostante la sua importanza e la sua resistenza storica, è strano che la dottrina del "non-sé" sia difficilmente attestata nella prima letteratura buddista, essendo il Vajirÿ Sutta forse l’unico discorso Pali ad affermare esplicitamente l’idea. 

Ci sono solo due spiegazioni plausibili per questa peculiarità storica. 

La prima è che la dottrina è implicita nei primi testi, ma per qualche motivo è stata esplicitata solo nel Vajirÿ Sutta (e forse in pochi altri discorsi). 

La seconda è che la dottrina era generalmente sconosciuta ai compositori dei testi canonici – sia perché emersa in epoca successiva, sia perché si trattava inizialmente di un'idea marginale – e quindi non la registrarono. 

Entrambe le spiegazioni implicano che il pensiero buddista sia cambiato nel tempo: da formulazioni implicite a formulazioni esplicite della dottrina, e così uno sviluppo successivo o una preoccupazione per un piccolo aspetto alla fine arrivò a dominare la corrente filosofica principale del primo saÿgha. In altre parole, dev'esserci stato un cambiamento terminologico o filosofico sull’essere umano nel pensiero buddista primitivo. Per stabilire l’eventualità più probabile, occorre riconsiderare i primi insegnamenti buddisti sull’identità personale. Ciò comporterà il riesame di argomenti molto antichi, ma poiché non è stato raggiunto un consenso generale, ciò è inevitabile. Tale studio è reso ulteriormente necessario dal fatto che una serie di importanti problemi critici del testo sono stati ignorati: il problema storico sopra menzionato non è stato adeguatamente riconosciuto, si è prestata poca attenzione alla forma dell'importante insegnamento del non-sé, il vocabolario di base degli insegnamenti sull'identità personale è stato frainteso, i parallelismi non buddisti con importanti insegnamenti sono stati trascurati, e poco è stato fatto per un tentativo di mettere in relazione gli insegnamenti sull'identità personale con le preoccupazioni dottrinali più ampie dei primi testi. In breve, c’è molto spazio per un’esplorazione più dettagliata di questo aspetto del pensiero buddista primitivo. 

Una visione minoritaria ma non insignificante è quella di Pérez-Remón (1980), il quale ha sostenuto che, poiché i primi testi non negano il sé, devono di fatto presupporre esso; per altri studiosi che credono che i primi insegnamenti buddisti presuppongano un sé, vedere Collins 1982: 3–10. 

Contro questa visione, Vetter (1988: 41, n.10) ha sostenuto che, sebbene i primi testi non neghino l'esistenza del sé, non la presuppongono. 

Lo studio dettagliato di Oetke (1988) sostiene inoltre che i primi testi né negano né affermano l'esistenza del sé. 

Tale studio deve iniziare con un punto molto antico e molto discusso: il background upanishadico del buddismo primitivo. Infatti, come vedremo, le prime speculazioni upanishadiche sull'Ātman erano ben note nei primi circoli buddisti e determinano la forma e il contenuto di alcuni importanti insegnamenti buddisti primitivi. Dei vari significati in cui è usato il termine Ātman nelle prime Upanishad, il più importante è “sé spirituale o il nucleo più profondo di un essere umano”, e anche il soggetto interiore della percezione, cioè un “veggente invisibile”. Secondo Olivelle (1998: 22) il termine è usato in altri due sensi, vale a dire come semplice pronome riflessivo e per denotare "un corpo vivente che respira". I tre usi sono ben attestati anche in tutta la letteratura sanscrita. Secondo Monier Williams, nel suo senso più semplice il termine Ātman si riferisce alla persona corporea: “la persona o tutto il corpo considerato come uno e contrapposto alle membra separate del corpo”. Altre cose suggeriscono anche che "Essenza" sia la definizione più antica e basilare del termine Ātman, e “il respiro, l’anima, principio di vita e sensazione”. Che l'Ātman sia un principio spirituale è reso evidente dai numerosi riferimenti alla sua immortalità. Che si tratti di un principio spirituale distinto dal corpo è reso chiaro in quei passaggi che descrivono la sua reincarnazione. […] Tuttavia, si dice che l’Ātman di Yajñavalkya sia anche una coscienza non-duale identica all’essenza sottostante del cosmo (Brahman), la cui realizzazione è uno stato di pura beatitudine. Questa equazione del microcosmo (Ātman) e del macrocosmo (Brahman) è ovviamente filosoficamente problematica, poiché implica l'identificazione del soggetto individuale della percezione con un'essenza impersonale. Nelle prime Upanishad, però, questo problema viene risolto “misticamente” più che filosoficamente: “Meditando sull’Ātman (quando è vista, udita, contemplata e conosciuta...), la sua vera natura macrocosmica sarà rivelata (...tutto il mondo è conosciuto)". Tale comprensione appartiene più al regno dell'esperienza religiosa che a quello dell'indagine razionale. La peculiare identità di microcosmo e macrocosmo non era inizialmente problematica, ma lo divenne solo per le generazioni successive di pensatori Vedantici che la elaborarono con vari gradi di successo. È su questo sfondo concettuale che devono essere compresi i primi insegnamenti buddisti sull’identità personale. Come risulterà chiaro, questi insegnamenti si riferiscono all'Ātman Upanishadico sia nei suoi aspetti microcosmici che macrocosmici (rispettivamente come percettore interiore ed essenza non-duale). Comprendere esattamente come stanno le cose aiuterà a risolvere il problema se l’insegnamento del “non-sé” del Vajira Sutta fosse implicito in altri primi insegnamenti, o se fosse uno sviluppo filosofico di un periodo precedente dominato da preoccupazioni diverse. […] Il Brahmajala Sutta fornisce quindi una spiegazione coerente per i primi insegnamenti buddisti sull'identità personale così come per il filone apofatico del pensiero buddista primitivo, e così sostiene una comprensione religioso-filosofica che si trova costantemente ed ampiamente in tutti i primi testi buddisti. Sebbene questa non sia una filosofia del realismo poiché presuppone che la realtà dello spazio-tempo non si estenda oltre il condizionamento cognitivo di una persona, ciò non implica una comprensione idealistica, perché l'idealismo è ancora una sorta di ontologia, e in effetti può essere immaginata solo in particolari condizioni cognitive; gli autori del Mahanidana Sutta senza dubbio si opporrebbero a ciò sottolineando che non ci sarebbe modo di concepire una tale comprensione oltre la “sensazione” e la “coscienza di sé”. In effetti, l'idealismo è, fondamentalmente, un'ipostasi della consapevolezza soggettiva di una persona in una realtà ultima, indipendente dalla mente, tuttavia, un'idea che il Mahanidana Sutta rifiuta di questo sistema di pensiero è piuttosto la visione che il modo in cui le cose sono realmente è indicibile e impensabile. In altre parole, la filosofia del condizionamento epistemologico del Brahmajala Sutta implica che in definitiva la realtà è ineffabile, così come lo è lo stato della persona che la realizza sfuggendo al suo condizionamento cognitivo. 


Lo sviluppo del realismo riduzionista: le origini dell'Abhidharma 

Questo chiarimento concettuale ci permette di vedere che i presupposti metafisici del Brahmajala Sutta differiscono notevolmente da quelli del primo tentativo di sistematizzazione degli insegnamenti del Buddha, cioè il realismo riduzionista articolato nei vari Abhidharma. Questo riduzionismo si basa sulla dottrina del “non-sé”: presuppone che sebbene una persona “esista” nella realtà del mondo indipendente dalla mente, è costituita da “esistenti” o “eventi” impermanenti (dharma) privi di sé. L'essere umano e il mondo sono ridotti quindi alle loro parti costitutive, ritenute prive di essenza, ma esistenti transitoriamente nel dominio oggettivamente reale dello spazio-tempo. Tracce del cambiamento verso un riduzionismo proto-Abhidharma si possono trovare nei primi testi. È chiaro, ad esempio, che il Vajira Sutta è sia riduzionista che realistico, poiché parla degli aggregati “esistenti” (khandhesu santesu) e dell’incapacità di “trovare” in essi un essere essenziale (na yidha sattÿpalabbhati). Ciò va oltre l’insegnamento del non-sé e la filosofia del Brahmajala Sutta, presupponendo che si possa parlare della verità ultima nei termini dei concetti di "esistenza" e "non esistenza". Se è così, ne consegue che l’insegnamento del non-sé e il Vajira Sutta sono separati da un importante cambiamento filosofico: mentre il primo si basa sulla dottrina del condizionamento epistemologico e sulla verità relativa dello spazio-tempo, il secondo si basa sul presupposto realistico che lo spazio-tempo esista indipendentemente dalla coscienza umana. Questo cambiamento di pensiero era probabilmente complesso e sfaccettato, ma in linea di principio può essere spiegato semplicemente, perché richiede solo che alcuni pensatori buddisti si concentrino sull'insegnamento del Non-Sé (e sulle idee correlate) a scapito della struttura filosofica fornita dal Brahmajala Sutta. In un simile scenario l’insegnamento del Non-Sé avrebbe potuto facilmente essere interpretato in senso realistico, e ciò avrebbe gettato le basi per l’emergere del riduzionismo abhidharmico. Gli inizi di tale sviluppo possono forse essere visti nel Khemaka Sutta. Come abbiamo visto, il bhikkhu Khemaka era dell’opinione che “non vedo alcun tipo di sé (attan) o sua proprietà (attani-ya) in questi cinque aggregati di attaccamento, venerabili signori”. Sebbene ciò non indichi alcun allontanamento dalla filosofia del Brahmajala Sutta, certamente apre la strada a un nuovo tipo di indagine, in cui il bhikkhu contemplativo analizza i diversi aspetti del suo essere nel tentativo di trovare un "io". Un simile approccio lascia il pensiero buddista sull’orlo di un importante cambiamento concettuale: attraverso questa indagine, fattori dell’esperienza (i cinque aggregati), che erano ritenuti inadatti a essere considerati “sé”, cominciano a sembrare fattori impermanenti dell’essere che manca di sé. Il passaggio dall’insegnamento che “la forma non è il sé” (essendo questa una concettualizzazione inadeguata) all’idea simile ma sottilmente diversa che “nessun sé può essere trovato nella forma” (quest’ultima essendo qualcosa che esiste mentre la prima no) è facile immaginarlo sulla base del Khemaka Sutta. La prova testuale di questo cambiamento è infatti contenuta nel Mahahatthipadopama Sutta. Questo discorso inizia con la similitudine dell'impronta dell'elefante, ma presto si trasforma in un'analisi del primo aggregato – la forma – nei termini dei quattro elementi materiali (terra, acqua, fuoco e vento). L’insegnamento del Non-Sé viene applicato a questi quattro elementi materiali nel modo seguente: Cos'è, venerabili signori, l'elemento terra? Potrebbe essere interno o esterno. E qual è l'elemento terra interno? Ciò che è interno e personale, cioè ciò che è solido, duro e materialmente derivato, vale a dire: capelli, peli del corpo, unghie, denti, pelle, carne, tendini, ossa, midollo osseo, reni, cuore, fegato, membrana, milza, polmoni, intestino, stomaco, feci, e quant'altro è interno e personale, cioè ciò che è solido, duro e materialmente derivato, questo, venerabili signori, si dice che sia l'elemento interno della terra. Questo elemento terrestre molto interno e l’elemento terra esterno sono semplicemente l’elemento terra, che dovrebbe essere visto con la giusta comprensione così com’è: “Questo non è mio, io non sono questo, questo non è me stesso”. Una volta che questo è stato osservato con la corretta comprensione così com'è realmente, si rimane delusi dall'elemento terra, si purifica la propria mente dalla passione per l'elemento terra. Questo insegnamento non si concentra sul processo dell'esperienza condizionata e sulla sua appropriazione concettuale, ma si occupa piuttosto di un'analisi virtualmente esaustiva dei costituenti fisici di un essere umano. Questo è un notevole allontanamento dall'insegnamento del Non-Sé. Il punto non è più che il concetto di “sé” nasce in connessione con un processo dinamico dell’esperienza e ad esso inadatto, ma piuttosto che quando l’essere umano viene scomposto nelle sue parti costitutive, tutto si rivela privo di sé. Il Mahahatthipadopama Sutta presuppone quindi un'ontologia realista in cui i quattro elementi “esistono” realmente, ma il sé no. Inoltre, la verità ultima delle cose è qui catturata nelle parole, e non è qualcosa che va oltre la logica e la costruzione concettuale della coscienza, come affermato nel Brahmajala Sutta. I concetti catturano così il fatto che l’essere umano esiste realmente nella realtà dello spazio-tempo indipendente dalla mente, sebbene come aggregato di vari elementi in cui non è possibile trovare un sé. La similitudine della casa, che si trova verso la fine del testo, rende abbastanza chiaro questo realismo riduzionista: “Venerabili signori, come uno spazio chiuso si chiama «casa» a seconda dei tronchi, dei rampicanti, dell'erba e dell'argilla, così uno spazio chiuso si chiama «forma» in funzione delle ossa, dei tendini, della carne e della pelle. Si tratta di un'affermazione della verità ultima secondo cui l'essere fisico di una persona non è altro che un accumulo di diverse parti nelle quali, come prosegue il testo, si trovano la sensazione, l'appercezione, le volizioni e la coscienza”. Il riferimento a uno “spazio chiuso” mostra che gli autori di questo testo consideravano l'essere umano come una costruzione nello spazio-tempo, benché priva di identità intrinseca, idea che si avvicina molto alla “similitudine del carro” del Vajira Sutta. La verità da conoscere qui è che l'essere umano esiste, ma è un aggregato privo di essenza, un fatto che il bhikkhu dovrebbe arrivare a comprendere in questo modo: “Egli capisce così: Così infatti avviene l'incontro, la raccolta e l'accumulo dei cinque aggregati di attaccamento”. Ma il Beato ha detto questo: “Colui che vede l'Originazione Dipendente vede il Dhamma, e colui che vede il Dhamma vede l'Originazione Dipendente”. Proprio queste cose hanno origine in modo dipendente, vale a dire i cinque aggregati”. In questo passaggio i cinque aggregati sono realmente “aggregati”, cioè parti di cui è composta una persona, essendo impermanenti (originati in modo dipendente) e quindi non intrinsecamente reali. Ciò dimostra che una lettura realistica dell'insegnamento del Non-Sé ha effettivamente portato al riduzionismo, cioè alla nozione che una persona è un accumulo di elementi impermanenti e causalmente connessi. Questa comprensione è del tutto diversa da quella articolata nel Brahmajala Sutta e nella maggior parte degli altri testi sull'identità personale: non c'è traccia nel Mahahatthipadopama Sutta della nozione secondo cui i processi dinamici dell'esperienza condizionata non devono essere compresi in termini di identità. Il punto, piuttosto, è che l’identità intrinseca non può essere trovata nei diversi fattori esistenziali dell’essere umano. Come si spiega questa divergenza concettuale? Mentre la filosofia del condizionamento epistemologico può essere generalizzata a un gran numero di testi antichi, lo stesso non si può dire del realismo riduzionista sposato nel Vajira e nel Mahahatthipadopama Sutta. Ciò indica che le idee di questi ultimi testi erano marginali nel primo periodo, il che può essere spiegato solo in due modi possibili: o queste idee circolavano in una piccola sottosezione del primo saagha, e quindi non erano registrate nella maggior parte dei testi primi testi, o appartengono a uno stadio di speculazione successivo a quello registrato nella maggior parte dei primi testi. A sostegno di quest’ultima ipotesi si può notare che Ahakavagga e Paryanavagga, che sono certamente tra i primi testi buddisti, sono generalmente in accordo con la filosofia del condizionamento epistemologico. Nel Kalahavivada Sutta, ad esempio, il Buddha afferma (Sn 870) che l'esistenza e la non-esistenza dipendono dal contatto sensoriale: “Il piacevole e lo spiacevole hanno origine nel contatto sensoriale, ma non sorgono quando non c'è contatto sensoriale. Ti dico che da questo ha origine anche il fatto della non-esistenza e dell'esistenza”. Più avanti nello stesso dialogo (Sn 874) il Buddha spiega che la “forma” (rÿpa) è una proliferazione concettuale che dipende dalla concettualizzazione (o appercezione, sañña) e può quindi scomparire per l'adepto religioso: 

“Non cosciente della concettualizzazione, non cosciente dell'errata concettualizzazione, non ignaro ma non cosciente di ciò che non è vero: la forma scompare per chi ha raggiunto questo stato, perché il discernimento della molteplicità ha origine nella concettualizzazione”. 

Secondo questa enigmatica affermazione del Buddha, l'essere fisico di una persona non è in definitiva reale, ma dipende dalla tendenza a concettualizzare la realtà in termini di un molteplice mondo di diversità. Altrove, nell'Akhakavagga, i semi degli insegnamenti del Buddha sull'identità personale possono essere visti all'inizio del Tuvanaka Sutta (Sn 915–916), quando il Buddha risponde a una domanda sul raggiungimento del Nirvana: 

"Ti chiedo, parente del sole, grande saggio, riguardo al distacco e allo stato di pace: con quale tipo di visione si spegne un bhikkhu, così da non aggrapparsi a nulla nel mondo?" 

Il Beato disse: “Il contemplativo dovrebbe porre fine completamente alla nozione “io sono”, che è la causa principale del discernimento della molteplicità. Dovrebbe respingere qualunque sete interiore abbia, allenandosi a essere sempre consapevole”. 

Qui si dice che la nozione di esistenza individuale è la causa principale delle diverse percezioni di una persona, e questo è semplicemente un modo più enfatico per affermare l'insegnamento del Vepacitti Sutta, cioè che la nozione "io sono" è una proliferazione concettuale (papañca). Oltre a questi insegnamenti su questioni esistenziali, nel Purabhada Sutta il Buddha spiega (Sn 849) che il saggio liberato è indipendente dalla nozione stessa di tempo: 

"Privo di sete anche prima della morte", disse il Beato, "non dipendente dal passato, incommensurabile nel mezzo, per lui nulla è formato riguardo al futuro". 

L’affermazione che il saggio liberato è “incommensurabile” nel presente non è altro che un modo poetico di descrivere la completa trascendenza del tempo. Infatti nell'Akhakavagga la nozione di essere “indipendente” o “senza legami” (anissita) può riferirsi non solo all'assenza di inclinazione o passione per qualcosa, ma anche all'essere completamente privi della nozione di qualcosa. Quando, per esempio, il Paramakhaka Sutta afferma che il bhikkhu non dovrebbe avere alcuna dipendenza dalla conoscenza, il punto è che dovrebbe trascenderla. Infatti il Kalahavivada Sutta afferma che coloro che hanno opinioni diverse sulla liberazione sono “dipendenti”, mentre il Buddha è liberato, il che implica che è completamente al di là di tali opinioni. Sembra, quindi, che quando il Purabheda Sutta afferma che il saggio non è attaccato (anissito) al passato, significhi che è libero dalla nozione stessa di esso. Infatti questo testo prosegue affermando (Sn 851) che la libertà del saggio dal passato e dal futuro è connessa al suo stato cognitivo trasformato e alla mancanza di vedute: “Non ha attaccamento per il futuro e non si addolora per il passato. Percependo il distacco, non è condotto ai contatti sensoriali e alle visioni”. Tutte queste prove sono in accordo con la filosofia del condizionamento epistemologico del Brahmajala Sutta: “si dice che le nozioni di esistenza, non esistenza e tempo dipendano dal funzionamento cognitivo di una persona, e la liberazione da essi implica la cessazione della consapevolezza di una persona come esistenza individuale nello spazio-tempo”. Ci sono ragioni per ritenere che tali insegnamenti risalgano al Buddha stesso, non solo a causa dell'antichità e dell'originalità dell'Akhakavagga, ma anche perché gli insegnamenti correlati nel Paranavagga corrispondono molto da vicino ai pochi fatti storici sul Buddha che possono essere dedotti dalla letteratura antica. Osservazioni simili suggeriscono che anche l’insegnamento del Non- Sé deve essere attribuito al Buddha, poiché è difficile spiegare questo insegnamento altamente originale – specialmente la sua presenza nell’Alagaddapama Sutta – come una formulazione astratta di insegnanti buddisti successivi. Da un simile insegnamento, tuttavia, non si può presumere l'antichità dei Sutta Vajira e Mahahatthipadopama. È sicuramente importante che il Buddha non compaia in nessuno dei due testi e che l'oratore del Mahahatthipadopama Sutta sia Sariputta, il santo patrono dell'Abhidharma. Inoltre, nella sua affermazione che "... il Beato ha detto questo: Colui che vede l'Origine Dipendente vede il Dhamma...", il Mahahatthipadopama Sutta sembra addirittura speculare sul significato dell'insegnamento del Buddha sull'Origine Dipendente. Lo stile di analisi altamente complesso e artificiale di questo testo suggerisce anche che si tratti di un'opera proto-abhidharmica, un testo composto mentre il pensiero buddista progrediva verso una filosofia pienamente sviluppata di realismo riduzionista. Ulteriori prove a sostegno di questa stratificazione cronologica si trovano nei vari resoconti Vinaya dell'inizio del ministero del Buddha. Questi testi affermano che l'insegnamento del Buddha ai cinque discepoli si concluse con l'insegnamento del Non Sé, la cui comprensione scatenò la loro liberazione istantanea. Ma si può dimostrare che il racconto nel suo insieme si ispira e adatta il resoconto precedente dell'Ariyapariyesana Sutta. La comprensione dottrinale che sta alla base di questo adattamento può essere vista alla conclusione del Secondo Sermone, quando si afferma che le menti dei cinque discepoli del Buddha furono “liberate dalle corruzioni senza attaccamento”. Gli autori del Secondo Sermone si ispirarono quindi all'Ariyapariyesana Sutta, ma sostituirono il suo resoconto apofatico della liberazione dei cinque bhikkhu con uno apparentemente riduzionista, essendo il soggetto della liberazione le menti dei bhikkhu piuttosto che i bhikkhu stessi. Questa deviazione da una descrizione più antica, apofatica, che non vede alcun problema nel parlare dell’essere umano nel suo insieme che realizza il Nirvana, e la sua sostituzione con una formulazione riduzionistica – che nella letteratura buddista passata e presente integra la dottrina del “non-sé” – implica che gli autori del Secondo Sermone credevano nella non-esistenza del sé. Sembrerebbe addirittura che in questo caso gli autori di questo resoconto di Vinaya leggano la dottrina del Non Sé nell'insegnamento del Non Sé. Questa è una prova evidente di un cambiamento dottrinale da una filosofia dell’ineffabilità a quella del realismo riduzionista. Indipendentemente dalla forza o dalla debolezza di questa teoria del cambiamento dottrinale, un paio di fatti difficilmente possono essere negati. In primo luogo, una dottrina dell’ineffabilità è certamente contenuta nei primi testi buddisti, e i tentativi di negarla non sono plausibili. E in secondo luogo l'Aggivacchagotta Sutta presuppone una dottrina di riduzionismo realistico piuttosto che di ineffabilità. Ma questa comprensione non può essere derivata dal testo Pali. Ancora più importante, quando il Buddha afferma che lui, il Tathagata, ha “annientato” i cinque aggregati (MN I.487.31), e quindi non possono essere definiti, invece di leggere tathagata legge il termine arhat (2007: 71) e capisce che si riferisce a un santo buddista morto. Così traduce come segue: “tutta la rÿpa con cui si potrebbe predicare l'esistenza dell'arhat, tutta quella rÿpa è stata abbandonata”. Spostando l'attenzione dal Tathÿgata vivente – cioè il Buddha stesso – all'arhat morto, il significato del brano viene sostanzialmente cambiato. Perché ora sembrerebbe dire che non si può dire veramente nulla del santo morto perché i cinque aggregati di cui era precedentemente costituito non esistono più. Così Siderits nota che “la parola 'arhat' è un designatore conveniente, proprio come 'fuoco'. Quindi nulla di ciò che diciamo sull’arhat può in definitiva essere vero”. La filosofia è incompatibile con la filosofia del realismo riduzionista successivamente delineata nei vari Abhidharma e anticipata nel Vajira e nel Mahÿhatthipadopama Sutta. Difficilmente può essere il caso che entrambe le filosofie siano state ideate da un unico pensatore o dallo stesso gruppo di pensatori. L'uno deve essersi sviluppato dall'altro, e se la filosofia del condizionamento epistemologico e della sua trascendenza può essere ascritta agli inizi stessi del Buddismo e forse allo stesso Buddha, il realismo riduzionista deve appartenere a un periodo successivo. Questa è infatti la spiegazione più logica delle prove. La filosofia del condizionamento epistemologico sovverte radicalmente tutti i nostri presupposti più basilari sulla vita: è difficile credere che lo spazio-tempo sia meramente concettuale piuttosto che una realtà oggettiva, indipendente dalla mente. Non è difficile immaginare che questa filosofia impegnativa sia stata fraintesa e sostituita da una filosofia realistica sofisticata ma più semplice. In effetti, gli insegnamenti basati sulla filosofia del condizionamento epistemologico, come le tre critiche all'identità personale del Mahanidana Sutta, potrebbero facilmente essere fraintesi in modo realistico a meno che la filosofia sottostante non venga chiarita. Ma è difficile vedere come la filosofia del condizionamento epistemologico possa essere emersa da quella del realismo riduzionista. In conclusione, le prove qui studiate suggeriscono che la differenza tra l’insegnamento del Non-Sé e il Vajira Sutta è filosofica piuttosto che terminologica. Ne consegue che, sebbene i primi insegnamenti buddisti non fossero presentati sotto forma di un sistema filosofico, la loro fondazione avvenne su basi filosofiche. Le sue negazioni, e la similitudine della fiamma spenta, indicano una comprensione del tutto apofatica dell'esperienza religiosa, che punta verso una dottrina dell'ineffabilità. Infatti, sebbene l'evidenza suggerisca che avesse elaborato una visione coerente del mondo, indica anche che la applicò come e quando lo ritenne opportuno, vale a dire secondo le esigenze pragmatiche della situazione. L'interpretazione sembra coincidere con una delle affermazioni più famose del Buddha sul suo approccio all'insegnamento. Il Buddha afferma che sebbene la sua conoscenza sia vasta quanto il numero delle foglie in una foresta, gli insegnamenti da lui rivelati sono paragonabili a poche foglie. Secondo i testi studiati sopra, questa affermazione sembrerebbe significare che, sebbene il Buddha avesse elaborato una filosofia coerente, non la insegnò direttamente a causa del suo interesse pragmatico nell'aiutare gli altri a raggiungere la cessazione della sofferenza. Questo spiegherebbe perché gli insegnamenti più importanti studiati sopra, come l'insegnamento del “Non-Sé” e le critiche all'identità personale del Mahanidÿna Sutta, sono filosofici nel loro metodo e argomentazione, ma alla fine evitano un'affermazione diretta della verità filosofica. Lo stesso vale per il Brahmajala Sutta: è filosofico senza enunciare direttamente una filosofia. Tutto questo sembra essere l'opera non di un filosofo interessato alle idee astratte fini a se stesse, ma piuttosto di un insegnante religioso desideroso di applicare una comprensione filosofica per aiutare i suoi seguaci a raggiungere il miglior risultato spirituale possibile. I primi pensatori buddisti, tuttavia, erano meno filosoficamente parsimoniosi. Contemplando l'insegnamento del Non-Sé, arrivarono a credere nella non-esistenza del sé – in contrasto con gli avvertimenti espliciti del Buddha. Richard Gombrich ha recentemente sostenuto qualcosa in questo senso (2009: 164): 

“Non credo che Buddha fosse interessato a presentare una dottrina filosoficamente coerente: l'evidenza che la sua preoccupazione fosse pragmatica, per guidare le azioni del suo pubblico, è schiacciante. D’altro canto, ho anche concluso che la prova che egli avesse sviluppato una tale struttura di pensiero e che questa fosse alla base dei suoi consigli pragmatici non è meno convincente”. 

Buddha descrive come gli altri rispondevano ai suoi insegnamenti piangendo, battendosi il petto e pensando: "Sarò annientato!". Queste persone conclusero che il Buddha aveva insegnato la non esistenza del sé, sebbene il Buddha respinse questa accusa. È ironico che probabilmente entro poche generazioni dalla sua morte, i seguaci del Buddha giunsero esattamente alla stessa conclusione, anche se lo fecero con un po' più di compostezza e calma meditativa.







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