La notizia dell’arrivo del Signor Gurdjieff a Chicago, nell’inverno del 1932, mi mise in apprensione. A tutt’oggi, a distanza di quasi trent’anni e con il senno del poi, ancora non riesco a capire perché non lo volessi vedere. Sicuramente, i miei sentimenti nascevano in parte dal fatto che mi ero convinto che forse avevo sbagliato a lasciare il Prieuré nel 1929. A causa della mia dipartita, sentivo di non essere un seguace leale o fedele. Inoltre, se da una parte i suoi scritti mi interessavano veramente e provavo un sincero affetto per Gurdjieff come uomo, dall’altra il mio rapporto con il gruppo di Chicago mi aveva portato a mettere in discussione la validità del suo lavoro sotto ogni aspetto. Ero ancora alla ricerca di prove – qualche qualità nel comportamento dei suoi seguaci – che mi convincessero che egli fosse qualcosa di più di un potente essere umano in grado di ipnotizzare a suo piacere folte schiere di individui. In quel periodo, il mio interesse per i suoi scritti non andava oltre la curiosità legata alle sue particolari speculazioni e critiche sul genere umano. Non era un’accettazione incondizionata del suo punto di vista. Lo incontrai, ma non senza una grande resistenza da parte mia. In effetti, se non avessi ricevuto un suo messaggio in cui mi chiedeva esplicitamente di andare a trovarlo, di mia iniziativa non lo avrei fatto. Così come avvenne, non trovai l’incontro molto soddisfacente. Insieme a un gruppetto di suoi seguaci, mi ero recato in un ristorante del centro di Chicago dove ci aveva dato appuntamento. Un luogo rumoroso, in cui suonavano e ballavano. Dopo avermi salutato con grande affetto, prendemmo posto in mezzo a tutto quel chiasso e non ci furono ulteriori scambi. Gli altri lo assalirono con problemi personali noiosi e, secondo me, insignificanti, e per parecchio tempo la mia partecipazione consistette nell’assolvere diverse commissioni per lui: comprare le sigarette, un certo tipo di formaggio speciale, avvisare alcuni membri del gruppo di recarsi da lui, ecc. - Verso la fine, quando ci fu un calo nella conversazione generale, Gurdjieff si rivolse a me e, indicando le coppie che danzavano sull’affollata pista da ballo, mi chiese se mi rendevo conto che il ballo era un esempio molto interessante e quasi perfetto di ciò che egli definiva “titillazione”. Mi parve di capire che intendeva “spreco”, e glielo dissi. Mi chiese, allora, se sapevo che la titillazione era una “masturbazione sociale”, termine che, anche a causa della mia età, mi creava un certo imbarazzo. Riuscii a dire che ero d’accordo su questo punto e lui aggiunse che era arrivato il momento in cui dovevo guardare la vita della gente in modo oggettivo, cioè osservare le manifestazioni umane, e cercare di capire la differenza tra un comportamento umano genuino, essenziale, normale, e la “titillazione” o “masturbazione”. Proseguì dicendo che sebbene avesse usato l’esempio del ballo, dovevo imparare a riconoscere questa “masturbazione” in altre sfere dell’attività umana. Portò come esempio il fatto che la gente, di solito, impara abbastanza in fretta a trasformare ogni cosa, persino la religione e i valori cosiddetti seri, in una forma insignificante di titillazione. Feci qualche riferimento in merito a un’affermazione che aveva fatto molti anni prima, secondo la quale la maggior parte del genere umano era inevitabilmente destinata a diventare fertilizzante e sembrò molto compiaciuto che rammentassi quella conversazione. Tuttavia, mi confidò che recentemente aveva studiato la lingua americana e aveva imparato molti termini nuovi e utili; che adesso voleva cambiare il termine “fertilizzante” con “merda”, perché quest’ultima espressione era quella “reale”... un termine veramente espressivo che conferiva il giusto sapore a quella particolare condizione umana. Proseguì dicendo che io, come la maggioranza dei giovani, soprattutto americani, guardavo il mondo alla rovescia. Per esempio, davo per scontato che tutti quelli che incontravo erano buoni, onesti, retti, ecc., e arrivavo ad apprendere la verità solo attraverso la delusione. Un atteggiamento che implicava un processo lungo, lento e inadeguato.
«Devi imparare a guardare il mondo al dritto», suggerì. «Ogni persona che incontri, compreso te stesso, è una merda. Una volta imparato questo, quando scopri qualcosa di buono in una persona merdosa, una possibilità che le consente di non essere una merda, allora avrai ottenuto due cose: ti sentirai bene interiormente nel cogliere che questa persona è migliore di quanto pensavi e, inoltre, avrai fatto una giusta osservazione. Allo stesso modo, quando riesci a osservare te stesso, se già pensi che il sé è tutto una merda, allora, quando scorgerai qualcosa di buono nel sé, sarai in grado di riconoscerlo subito e proverai anche gioia. È molto importante che tu rifletta su questo punto».
Nella mia mente feci immediatamente l’associazione con i membri del gruppo di Chicago e questo ebbe l’effetto di modificare il mio atteggiamento nei loro confronti. Invece di rimanere deluso per il fatto che non manifestavano certe qualità grazie alla loro adesione al Lavoro di Gurdjieff, cominciai a cercare qualcos’altro. Mi parve decisamente molto più onesto e realistico osservare le persone, compreso me stesso, come delle nullità – o merde, per usare il suo termine – per poi discernere qualche piccolo, valido elemento in loro. E con mia grande sorpresa, ciò equivalse anche a una visione più compassionevole dell’umanità. Invece di spiare, con occhio critico, i segni del fallimento, cominciai ad attendere i segni del successo – come il piacere che si trae quando un cane impara un gioco, invece di sgridarlo ogniqualvolta non riesce a imparare. Che questo cambiamento nel mio atteggiamento corrispondesse o meno a ciò che Gurdjieff intendeva, è discutibile. Quello fu l’effetto che ebbe su di me, e a mio avviso l’efficacia dell’opera di Gurdjieff – o comunque di qualsiasi opera di quel genere – è necessariamente dettata dalla ricettività della persona verso la quale è diretta. Sia come sia, quella conversazione rese la mia successiva interazione con il gruppo di Chicago, e con le persone in generale, un processo molto meno inquietante e assai più accettabile. Ci fu un breve periodo in cui il paradosso di vedere gli altri come “merde” e, quindi, di sentirmi più in armonia con loro, mi creò una certa confusione, ma non mi scervellai più di tanto. Ero contento del cambiamento e questo mi bastava. Quella sera la nostra conversazione terminò con un’analisi piuttosto criptica di Gurdjieff del mio rapporto con lui. In tono divertito, e certo gustando qualche scherzo tutto suo, spiegò che le persone presenti apprendevano la sua opera in un modo molto diverso da quanto avessi fatto io, e che a causa del rapporto avuto con lui, nell’infanzia, adesso avevo certi problemi e conflitti che loro non avrebbero mai sperimentato.
«Stasera non volevi venire da me», disse, «così, io, che sono un uomo molto impegnato, ho dovuto trovare il tempo per mandarti a chiamare. Questo perché adesso hai un conflitto tra il vero sé e la personalità. Non hai appreso il mio insegnamento dalle discussioni e dal libro, l’hai appreso sulla pelle e non puoi sfuggire. Queste persone – e indicò gli altri membri del gruppo – devono sforzarsi, partecipare agli incontri, leggere il libro. Anche se tu non vai mai alle riunioni, non leggi il libro, non puoi comunque dimenticare ciò che ti ho trasmesso quand’eri bambino. Questi altri, se non vanno agli incontri, si dimenticheranno persino dell’esistenza del signor Gurdjieff. Ma non tu. Ti sono entrato nel sangue. Ti ho reso la vita insopportabile per sempre, ma questo tormento può essere una cosa molto positiva per la tua anima, perciò anche quando ti sentirai infelice dovrai ringraziare il tuo Dio per la sofferenza che ti ho procurato».
Fritz Peters - I miei anni con Gurdjieff