Nel cuore del ventesimo secolo, mentre il mondo occidentale si autocelebrava per i suoi inarrestabili avanzamenti scientifici e sociali, una voce dissonante si levava, vibrando di una saggezza antica e disarmante. Quella voce era di George Ivanovitch Gurdjieff, un enigmatico maestro spirituale i cui insegnamenti furono meticolosamente trascritti da P.D. Ouspensky in "Frammenti di un Insegnamento Sconosciuto". Gurdjieff non si limitava a criticare; egli smantellava con chirurgica precisione le fondamenta stesse su cui l'uomo occidentale aveva costruito la sua identità: le illusioni di cultura, civiltà e progresso. La sua critica non era un semplice lamento, ma una diagnosi impietosa di una condizione umana in stasi, mascherata da un frenetico movimento superficiale. Gurdjieff sfidava apertamente l'orgoglio intellettuale che permeava la società, mettendo in discussione la presunta superiorità dell'uomo "colto" rispetto a figure apparentemente più semplici come il fachiro o il monaco.
L'Illusione del Progresso: Un Moto Circolare, Non Ascendente
Il punto di partenza della demolizione gurdjieffiana risiede nella negazione categorica del progresso come lo intendiamo comunemente. Ouspensky riporta la sua domanda a Gurdjieff:
"Per un uomo di cultura occidentale", dissi, "è ovviamente difficile credere e accettare l'idea che un fachiro ignorante, un monaco ingenuo o uno yogi ritiratosi dalla vita possano essere sulla via dell'evoluzione, mentre un europeo colto, armato della “conoscenza esatta” e di tutti i più recenti metodi di indagine, non abbia alcuna possibilità e si muova in un circolo dal quale non c’è via di fuga”.
La risposta di Gurdjieff è fulminante e taglia alla radice ogni pretesa di superiorità intellettuale:
"Sì, è perché la gente crede nel progresso e nella cultura," disse G. "Ma non c'è alcun progresso. Tutto è uguale a migliaia e decine di migliaia di anni fa. La forma esteriore cambia. L'essenza non cambia. L'uomo rimane lo stesso."
Questa affermazione è un colpo diretto al cuore della narrativa moderna. Siamo cresciuti con l'idea che l'umanità sia in una costante ascesa, che ogni generazione sia intrinsecamente "migliore" o più "avanzata" della precedente. Gurdjieff smaschera questa narrazione come una gigantesca auto-illusione. Sì, abbiamo sviluppato tecnologie incredibili, abbiamo accumulato un'immensa mole di dati, ma questo cambiamento nella "forma esteriore" non ha intaccato l' "essenza" umana. La nostra psiche, le nostre motivazioni più profonde, le nostre reazioni istintive e i nostri schemi comportamentali sono rimasti invariati per millenni. La violenza, l'avidità, la paura, il desiderio di dominio: questi motori primordiali persistono, travestiti da sofisticate giustificazioni sociali o economiche. L'uomo moderno, con il suo smartphone e la sua intelligenza artificiale, vive con gli stessi drammi interni, le stesse passioni incontrollate, le stesse paure ancestrali dell'uomo delle caverne. Il "progresso" che celebriamo è, nella visione gurdjieffiana, un movimento orizzontale, un'espansione superficiale, non una vera evoluzione verticale dell'essere.
La Civiltà: Un Manto di "Belle Parole" su Violenza e Schiavitù
La critica di Gurdjieff non risparmia la stessa struttura della civiltà moderna. La sua visione è cruda e disincantata:
"Le persone “civilizzate” e “colte” vivono esattamente con gli stessi interessi dei selvaggi più ignoranti. La civiltà moderna è basata sulla violenza, sulla schiavitù e sulle belle parole. Ma tutte queste belle parole sul 'progresso' e sulla 'civiltà' sono solo parole."
Qui, Gurdjieff scoperchia l'ipocrisia intrinseca del sistema. Ci presentiamo come società illuminate, guidate da principi di giustizia e libertà, eppure, sotto la superficie levigata, persistono meccanismi di violenza (economica, psicologica, strutturale) e di "schiavitù" (sistemi che costringono gli individui a ruoli predeterminati, spesso senza possibilità di vera scelta o realizzazione). Le "belle parole" – democrazia, diritti umani, sostenibilità – diventano, in questa prospettiva, mere facciate retoriche che occultano la cruda realtà di interessi egoistici e giochi di potere. Il "selvaggio più ignorante" di cui parla Gurdjieff non è necessariamente l'abitante di una tribù remota, ma l'uomo la cui essenza non è stata toccata da un vero lavoro interiore, indipendentemente dal suo status sociale o dalla sua erudizione. Per Gurdjieff, un laureato universitario che persegue solo la ricchezza o il potere è, in termini essenziali, indistinguibile dal "selvaggio" mosso dagli stessi impulsi primari. La civiltà, in questa luce, non è un motore di elevazione morale, ma un complesso sistema che permette a questi impulsi di manifestarsi in forme più complesse e, forse, più insidiose.
L'Intellettualismo: La Catena d'Oro della Mente
Il punto forse più provocatorio della critica gurdjieffiana riguarda il ruolo dell'intelletto e dell'educazione contemporanea. Se l'uomo occidentale si gloria della sua "conoscenza esatta" e dei suoi "metodi di indagine", Gurdjieff vede in questo un limite invalicabile, una vera e propria prigione autoimposta:
"L'intellettualismo dell'educazione contemporanea infonde negli uomini una propensione e una tendenza a cercare definizioni logiche e argomenti logici contro tutto ciò che sentono e, senza accorgersi, gli uomini inconsciamente si incatenano con il loro desiderio di esattezza in quegli ambiti dove le definizioni esatte, per loro stessa natura, implicano inesattezza di significato."
Questa è la trappola più subdola per l'uomo moderno. Siamo addestrati a pensare in termini logici, a cercare cause ed effetti, a definire ogni cosa con precisione. Questo approccio è estremamente efficace nel campo della scienza e della tecnologia, ma diventa un ostacolo insormontabile quando si tenta di comprendere le dimensioni più profonde dell'esistenza umana e dell'evoluzione interiore. L'anima, la coscienza, le emozioni, l'intuizione, l'essenza stessa dell'essere: questi domini sfuggono alla rigidità delle "definizioni esatte". Il desiderio di "esattezza" in questi ambiti porta a una "inesattezza di significato". Tentare di incasellare la complessità dell'esperienza umana in categorie logiche e razionali significa inevitabilmente impoverirla, distorcerla o negarne aspetti fondamentali. L'intelletto, da strumento di comprensione, si trasforma in una barriera, una catena invisibile che impedisce all'uomo di percepire realtà che non si conformano ai suoi schemi logici predefiniti. In altre parole, l'eccessiva fiducia nella razionalità ci rende ciechi a tutto ciò che non è razionale, compresa la possibilità di una vera trasformazione interiore. L'uomo si incatena volontariamente, convinto che la sua prigione sia, in realtà, la sua più grande libertà.
Un Risveglio Necessario
La critica di Gurdjieff non è solo una denuncia; è un invito, un appello al risveglio. Egli non propone di rinunciare alla conoscenza o alla civiltà, ma di riconoscerne i limiti e le illusioni. La vera evoluzione, suggerisce, non si trova nell'accumulo di dati o nella sofisticazione esterna, ma in un profondo lavoro interiore, in una comprensione dell'essenza umana al di là delle sue forme mutevoli. Per l'uomo occidentale, abituato a misurare il suo valore in termini di successo materiale e intellettuale, il messaggio di Gurdjeff è scomodo e destabilizzante. Ma è proprio in questo disagio che può nascere la possibilità di un vero cambiamento. Solo riconoscendo l'illusione del progresso superficiale, la vanità delle "belle parole" e la prigione dorata dell'intelletto, l'uomo può iniziare a cercare una via di fuga dal "circolo" e intraprendere il vero percorso dell'evoluzione. La sfida di Gurdjieff rimane attuale: siamo disposti a guardare oltre le facciate e ad affrontare la scomoda verità sulla nostra presunta "civiltà avanzata"?
