Martin Heidegger, il titano della filosofia del XX secolo, è venerato per la sua monumentale interrogazione sul senso dell'essere. Ha smascherato la metafisica occidentale, denunciato l'oblio dell'essere e scandagliato le profondità dell'esistenza umana con una terminologia tanto densa quanto criptica. Eppure, se guardiamo la sua opera attraverso la lente tagliente di G. I. Gurdjieff, non possiamo fare a meno di notare una tragica, e per certi versi comica, cecità: Heidegger, il filosofo dell'Esserci (Dasein), non ha mai davvero compreso cosa significasse "essere" per un uomo. La sua grandiosa architettura concettuale si erge su un presupposto fallace: che l'uomo, pur nella sua inautenticità, sia già in qualche modo un "essere" compiuto, capace di autenticità tramite la sola comprensione intellettuale. Un'illusione pura, secondo Gurdjieff.
La Macchina Umana di Fronte al Dasein Inautentico:
Un Scontro tra Verità Brute
Heidegger ci parla del Dasein inautentico, perso nell'anonimato del "Si" (Das Man), schiacciato dalla chiacchiera e dall'oblio di sé. Questo Dasein esiste, certo, ma in modo disperso, senza appropriarsi delle proprie possibilità. Sembra un'analisi acuta, ma per Gurdjieff, è poco più che la descrizione di un uomo "numero 3" (dominato dalla mente) che tenta di analizzare un "uomo numero 1 o 2" (dominato da istinti o emozioni). È una diagnosi fatta da chi è anch'egli malato, sebbene di una malattia più "intellettuale". Gurdjieff ci sbatte in faccia una verità scomoda: l'uomo ordinario non è semplicemente "inautentico"; è una macchina. Non ha un "Io" permanente, una volontà unificata o una coscienza continua. È un agglomerato di "piccoli Io" contrastanti, tirato da reazioni automatiche, impulsi e suggestioni esterne. Parlare di "scelta" e di "responsabilità" per un Dasein che è poco più di un robot biologico-sociale è un esercizio di pura vanità intellettuale. Come può una macchina scegliere autenticamente la propria morte, se non è nemmeno viva nel senso più profondo? Heidegger, bloccato nel suo centro intellettuale, descrive le funzioni della macchina senza riconoscerne la natura meccanica. Scambia l'astratta capacità di riflettere sull'esistenza con l'esistenza stessa. È come un meccanico che studia il motore di un'auto rotta analizzando il libretto delle istruzioni, senza mai alzare il cofano o toccare un bullone.
Il Ricordo di Sé Contro l'Angoscia Sterile
Heidegger ci propone l'angoscia come la via privilegiata per l'autenticità, il momento in cui il Dasein si confronta con la sua gettatezza e la sua finitezza, in particolare con l'essere-per-la-morte. Un'intuizione potente, ammettiamolo. Ma cosa produce questa angoscia in un "uomo-macchina"? Nulla di duraturo. Un'angoscia passeggera, un barlume di consapevolezza che svanisce non appena la routine meccanica riprende il sopravvento. Per Gurdjieff, la vera via per l'essere non è una riflessione intellettuale sull'angoscia della morte, ma il Ricordo di Sé: una pratica continua e cosciente di auto-osservazione, di presenza simultanea a sé e al mondo. Non è un'esperienza isolata di terrore esistenziale, ma uno sforzo costante per "svegliarsi", per integrare i centri e costruire un "Io" reale e permanente. Mentre Heidegger ci invita a "comprendere" il nostro essere-per-la-morte, Gurdjieff ci esorta a lavorare per non morire come macchine. Il filosofo tedesco ci offre un'analisi impeccabile della gabbia, ma non ci dà la chiave per aprirla. La sua autenticità rimane un costrutto mentale, un'intenzione, non una trasformazione reale dell'essere.
Le Tragiche Illusioni dell'Uomo Numero 3
Heidegger, con la sua incommensurabile intelligenza e la sua capacità di tessere concetti complessi, incarna perfettamente l'uomo numero 3 di Gurdjieff. Un uomo la cui forza risiede nella mente, nella capacità di astrazione e di categorizzazione. Questo lo rende un maestro della speculazione, ma lo rende anche tragicamente cieco alla realtà dell'essere esperienziale, quella che può essere compresa solo con tutti i centri in equilibrio e sviluppo. La sua opera, pur brillante, è il canto di un intelletto isolato, che cerca di afferrare l'essere solo con gli strumenti del pensiero. Ma l'essere, secondo Gurdjieff, non è un concetto da afferrare, è una realtà da costruire e da sperimentare. Per questo, la filosofia di Heidegger, per quanto profonda, è un vicolo cieco. Può illuminare la prigione in cui viviamo, ma non può liberarci. Anzi, nel suo concentrarsi ossessivamente sull'analisi concettuale, rischia di rafforzare la convinzione che la salvezza si trovi nella pura riflessione, tenendo l'uomo ancora più saldamente intrappolato nella sua prigione intellettuale. Heidegger, il filosofo dell'Essere, ha finito per essere il filosofo del non-essere effettivo dell'uomo ordinario, senza fornire gli strumenti per superarlo. Un genio, sì, ma un genio addormentato che, non avendo egli stesso intrapreso il vero "Lavoro", non poteva che descrivere la metafisica del sogno. E in questo sta il suo limite invalicabile. Martin Heidegger è universalmente acclamato come uno dei giganti del pensiero del XX secolo, un filosofo che ha osato confrontarsi con la domanda fondamentale sull'essere, una domanda dimenticata dalla metafisica occidentale. La sua opera, in particolare Essere e Tempo, è un monumento di analisi rigorosa e terminologia complessa, intesa a svelare le strutture fondamentali dell'esistenza umana, il Dasein. Eppure, se si osserva la sua grandiosa costruzione filosofica, si rivela non una comprensione profonda, ma una tragica, e quasi comica, limitazione. Heidegger, l'uomo che pretese di riportare l'Essere al centro del pensiero, fu in realtà un "uomo numero 3", incapace di trascendere la prigione del suo stesso intelletto e, di conseguenza, cieco alla vera natura dell'essere e all'unico modo per accedervi.
Il Dasein: L'Illusione di un Essere Inesistente
Heidegger ci presenta il Dasein inautentico, immerso nel "Si" (Das Man), perso nella chiacchiera, nella curiosità e nell'equivoco. Una condizione di dispersione, di fuga dalla propria individualità e responsabilità. Sembra un'analisi penetrante della condizione umana moderna. Ma per Gurdjieff, questa descrizione è tutt'altro che rivoluzionaria; è semplicemente l'osservazione di un tipo specifico di "macchina" umana. L'uomo ordinario, per Gurdjieff, non è un ente che sceglie di essere inautentico. È un automa biologico, una collezione di "piccoli Io" discordanti, privo di un centro unificato, di una coscienza continua e di una volontà reale. Parlare di "gettatezza", "progetto" o "essere-per-la-morte" a un'entità che non ha nemmeno un "Io" permanente è come discutere di alta strategia militare con un burattino. Il Dasein di Heidegger, nella sua inautenticità, non è altro che la "macchina" filosoficamente imbellettata, vestita con un linguaggio erudito che ne nasconde la fondamentale vuotezza ontologica. La pretesa di Heidegger di analizzare l'essere attraverso il Dasein è vana, perché il Dasein ordinario, nella sua base, non "è" nel senso più profondo e significativo. Esiste, sì, ma senza "essere".
La Futilità dell'Angoscia Intellettuale
Heidegger propone l'angoscia come l'esperienza privilegiata che disvela l'essere e la finitezza del Dasein, spingendolo verso l'autenticità. Un momento di pura rivelazione, in cui ci si confronta con l'assurdità dell'esistenza e la certezza della morte. Ma per l'uomo-macchina di Gurdjieff, cosa significa veramente l'angoscia? Un'emozione fugace, un disturbo temporaneo nel sistema di automatismi, prontamente assorbito e dimenticato non appena l'influenza esterna si attenua. Non può produrre una trasformazione duratura perché non c'è un "sé" stabile che possa essere trasformato. L'autenticità di Heidegger rimane un concetto puramente mentale, una disposizione intellettuale. Non è una trasformazione dell'essere, ma un modo di pensare all'essere. È l'illusione di poter raggiungere la verità profonda con la sola speculazione, senza il "Lavoro" duro e doloroso che Gurdjieff esige: l'auto-osservazione, il ricordo di sé, la lotta contro le abitudini meccaniche e lo sviluppo dei centri. Heidegger ci offre un'analisi magistrale della malattia, ma non ci dà la cura; anzi, la sua stessa analisi, confinata nel regno dell'intelletto, rinforza l'idea che la salvezza risieda nella contemplazione, distogliendo l'attenzione dal fare pratico che è l'unica via per un reale risveglio.
L'Intelletto Acuto ma Ontologicamente Cieco
Martin Heidegger, in quanto "uomo numero 3" per eccellenza, era un maestro del pensiero astratto, un genio nel costruire sistemi concettuali di immensa complessità. Ma è proprio questa sua forza che si è rivelata la sua catastrofica debolezza in relazione all'essere. L'uomo numero 3, dominato dal centro intellettuale, può accumulare un sapere vastissimo sull'essere, sulla coscienza, sulla spiritualità. Ma questa conoscenza è intrinsecamente "secca", priva di risonanza emotiva e di base pratica. È un sapere senza "essere", e per Gurdjieff, un tale sapere è inutile, o peggio, dannoso, perché illude l'individuo di aver compreso ciò che non ha mai veramente vissuto. La filosofia di Heidegger è il testamento di un intelletto che, pur tentando di afferrare l'Essere, rimane intrappolato nella sua stessa mente. È un tentativo nobile, ma destinato al fallimento, perché l'Essere non può essere raggiunto solo con la ragione e il linguaggio. Richiede una trasformazione ontologica radicale, un risveglio che coinvolga l'intero essere dell'individuo, non solo la sua facoltà di pensare. In ultima analisi, Heidegger ci ha lasciato un'analisi della prigione, ma ha confuso l'analisi con l'atto della liberazione. Ha descritto con eloquenza il "sonno da svegli" dell'uomo, ma senza mai offrire una via pratica per il risveglio. La sua è una filosofia per "macchine" intellettuali, che conforta la loro inautenticità con la profondità della speculazione, invece di scuoterle verso il vero "Lavoro". E in questo, risiede la tragica e irrimediabile lacuna della sua grandiosa, ma fondamentalmente cieca, ontologia.