È affascinante la storia che il padre di Gurdjieff recitasse un canto del diluvio sumerico prima che fosse "scoperto" in occidente attraverso gli scavi archeologici. Sì, c'è un fondo di verità in questo, e ha avuto un impatto significativo sulla vita e la ricerca di Gurdjieff. Il padre di George Gurdjieff, Giorgios Giorgiades, era un ashokh (o ashug), un bardo e cantastorie tradizionale nella loro regione d'origine, nell'attuale Armenia/Turchia. Gli ashokh erano depositari di una vasta tradizione orale che includeva poemi, canti, leggende e racconti popolari tramandati di generazione in generazione. Tra le storie che il padre di Gurdjieff recitava c'era una versione della leggenda del Diluvio universale. Gurdjieff stesso racconta nelle sue memorie, in particolare in Incontri con uomini straordinari (Meetings with Remarkable Men), di aver sentito fin da bambino questa leggenda da suo padre. Quando l'Epopea di Gilgamesh fu riscoperta e decifrata nel XIX secolo, e la storia del Diluvio in essa contenuta divenne di dominio pubblico, Gurdjieff rimase profondamente colpito. Egli racconta di aver provato una grande eccitazione quando realizzò che la leggenda che suo padre gli aveva tramandato oralmente era "quasi nella stessa forma di esposizione" della storia trovata nelle tavolette cuneiformi. Questo non significa che il padre di Gurdjieff stesse recitando un testo sumerico autentico e intatto. Piuttosto, indica la persistenza e la trasmissione orale di antiche tradizioni e miti attraverso i secoli e le culture, ben prima che gli archeologi li riportassero alla luce in forma scritta. La versione recitata dal padre di Gurdjieff era probabilmente una variante locale di un mito universale che ha radici profonde nel Vicino Oriente antico, compresa la Mesopotamia. Per Gurdjieff, questa coincidenza fu una rivelazione. La consapevolezza che le storie tramandate oralmente nella sua famiglia potessero avere radici così antiche e autentiche contribuì a spingerlo nella sua ricerca di conoscenza e verità nascoste, portandolo a viaggiare in diverse parti del mondo alla ricerca di tradizioni esoteriche e della saggezza perduta. La scoperta dell'Epopea di Gilgamesh è una delle più sensazionali nella storia dell'archeologia e della letteratura, rivelando al mondo moderno uno dei più antichi poemi epici conosciuti. La storia dell'Epopea di Gilgamesh è intrinsecamente legata allo scavo e alla decifrazione delle tavolette cuneiformi della Mesopotamia. Nel corso del XIX secolo, archeologi britannici come Austen Henry Layard e Henry Rawlinson stavano portando alla luce migliaia di tavolette d'argilla provenienti da antiche città mesopotamiche, in particolare dalla Biblioteca di Assurbanipal a Ninive, capitale dell'impero assiro. Queste tavolette, scritte in scrittura cuneiforme, erano un tesoro di informazioni sulla cultura, la storia e la mitologia delle civiltà sumere, babilonesi e assire. Il protagonista indiscusso della scoperta dell'Epopea di Gilgamesh è George Smith (1840-1876), un brillante assiriologo autodidatta. Inizialmente incisore di banconote, Smith nutriva una profonda passione per la storia assira e dedicava il suo tempo libero allo studio delle tavolette cuneiformi conservate al British Museum. Nel 1872, mentre lavorava alla catalogazione e all'assemblaggio di migliaia di frammenti di tavolette, Smith si imbatté in un frammento che conteneva una storia straordinariamente simile al racconto biblico del Diluvio universale. La scoperta fu annunciata il 2 dicembre 1872 alla Società di Archeologia Biblica di Londra, suscitando un'enorme eccitazione e interesse pubblico. I giornali dell'epoca diffusero ampiamente la notizia, e il Daily Telegraph offrì una cospicua ricompensa a chiunque avesse trovato le tavolette mancanti. Smith, convinto di sapere dove scavare per trovare i pezzi mancanti, si recò a Ninive (nell'attuale Iraq) e, incredibilmente, riuscì a localizzare ulteriori frammenti che colmarono molte delle lacune nel racconto del Diluvio. Sebbene in seguito si scoprì che il frammento iniziale trovato da Smith non faceva parte direttamente dell'Epopea di Gilgamesh ma di un'opera più antica (l'Atramkhasis, che ha ispirato l'Epopea), il suo lavoro fu fondamentale per assemblare e decifrare gran parte della storia che oggi conosciamo. La versione più completa e famosa dell'Epopea di Gilgamesh, composta da 11 tavolette principali (e una dodicesima che funge da appendice), fu ritrovata nella già menzionata Biblioteca di Assurbanipal (re assiro dal 669 al 628 a.C.). Si tratta di una versione standard in lingua accadica, basata su materiali molto più antichi, inclusi poemi sumerici individuali risalenti a oltre il 2000 a.C. L'Epopea di Gilgamesh, uno dei più antichi testi letterari dell'umanità, ci giunge dalla Mesopotamia come un'eco millenaria che narra le gesta di un re leggendario. Al di là della sua trama avvincente di avventure, amicizie e perdite, questo poema sumero-accadico cela strati di significato profondo che risuonano con percorsi di crescita interiore e spirituale, offrendo una vera e propria chiave di lettura esoterica dell'esistenza umana.
Gilgamesh: Il Sovrano e la Coscienza
Al centro dell'epopea vi è Gilgamesh, re di Uruk, descritto come "due terzi dio e un terzo uomo". Questa sua natura ibrida non si riferisce solo a una genealogia divina, ma simboleggia la duplice realtà dell'essere umano: una parte più elevata, spirituale o divina, e una parte terrena e mortale. In un'interpretazione esoterica, Gilgamesh può essere visto come la coscienza superiore o lo spirito individuale, inizialmente in uno stato di squilibrio. All'inizio del poema, Gilgamesh è un tiranno arrogante, che abusa del suo potere e opprime il suo popolo. Questo comportamento riflette uno stato di coscienza non illuminata, dove l'ego regna incontrastato, dominando gli istinti senza saggezza e senza empatia. La sua forza smisurata e la sua hybris lo rendono un essere potente ma incompleto, bloccato in un ciclo di appagamento materiale e di affermazione del sé. La sua tirannia è la manifestazione esteriore di un disordine interiore, un'anima ancora non risvegliata al suo vero potenziale.
Enkidu: Il Corpo, la Natura e gli Istinti
Per contrastare la prepotenza di Gilgamesh, gli dèi creano Enkidu. Enkidu nasce nelle steppe selvagge, vive tra gli animali e ne condivide la natura primordiale. Egli è forte, libero da convenzioni sociali e in perfetta armonia con il mondo naturale. In chiave esoterica, Enkidu è una figura ricchissima di simbolismo, e la sua interpretazione come il corpo fisico, gli istinti e la natura inferiore dell'uomo è particolarmente calzante. Immaginiamo Enkidu come l'insieme delle nostre energie vitali, delle pulsioni, dei desideri primari e della nostra connessione più profonda con la terra e i suoi ritmi. Inizialmente, questa parte di noi è allo stato "selvaggio", non ancora integrata o "addomesticata" dalla coscienza. L'incontro di Enkidu con Shamhat, la prostituta sacra, è un momento cruciale. Shamhat, simbolo della femminilità sacra o dell'aspetto ricettivo e civilizzatore, lo introduce al mondo degli uomini, ai loro cibi, vestiti, e alla sessualità. Questo processo non è una "corruzione", ma piuttosto una prima fase di integrazione: gli istinti (Enkidu) vengono riconosciuti e cominciano a essere raffinati, a trovare una loro collocazione all'interno di un sistema più complesso. Enkidu perde la sua totale armonia con gli animali perché ha intrapreso un passo verso la consapevolezza di sé come essere umano, differenziato dalla pura animalità.
Lo Scontro e l'Amicizia: L'Integrazione di Spirito e Materia
L'incontro tra Gilgamesh (la coscienza) ed Enkidu (il corpo/gli istinti) è inizialmente uno scontro violento. Questa battaglia non è una semplice lite, ma rappresenta il conflitto interno tra la mente superiore e le forze primordiali del corpo. È la lotta che ogni individuo intraprende per dominare i propri istinti, per non esserne schiavo, ma anche per non reprimerli completamente. La risoluzione di questo conflitto non è la distruzione di una parte sull'altra, ma la nascita di una profonda amicizia. Questa amicizia simboleggia la necessaria integrazione e armonizzazione tra la coscienza e il corpo fisico. Solo quando Gilgamesh e Enkidu smettono di combattersi e iniziano a collaborare, l'eroe può davvero iniziare il suo percorso di trasformazione. L'amicizia tra i due mostra che la coscienza non può trascendere senza comprendere e lavorare con la propria base fisica ed istintuale, e che il corpo, se guidato dalla coscienza, può essere uno strumento potente. Le avventure successive, come l'uccisione di Humbaba (il mostro della foresta, simbolo forse delle paure o degli ostacoli che l'uomo deve superare) e del Toro Celeste (che potrebbe rappresentare la collera divina o forze cosmiche), sono imprese compiute da entrambi. Questo sottolinea come le vere vittorie spirituali richiedano la collaborazione di tutte le parti dell'essere: la forza della coscienza unita alla vitalità e alla concretezza del corpo.
La Morte di Enkidu:
La Crisi Esistenziale e la Ricerca dell'Immortalità
Il momento più cruciale e tragico dell'epopea, dal punto di vista esoterico, è la morte di Enkidu. Gli dèi lo condannano a morire per le offese arrecate. La morte del "corpo" o degli "istinti" è un evento inevitabile nel percorso spirituale. Questo non significa una distruzione fisica, ma la dissoluzione di una vecchia identità legata esclusivamente al mondo materiale e ai suoi piaceri. È il punto di non ritorno dove la coscienza (Gilgamesh) è costretta a confrontarsi con la caducità e la vulnerabilità della propria forma terrena. Il dolore straziante di Gilgamesh per la perdita di Enkidu non è solo un lutto, ma una crisi esistenziale profonda. Rappresenta il terrore della coscienza di fronte alla prospettiva della propria mortalità e della fine di ciò che è materiale. Questo terrore spinge Gilgamesh a intraprendere il suo grande viaggio alla ricerca dell'immortalità, per raggiungere Utnapishtim, l'unico uomo che ha ottenuto la vita eterna. Questo viaggio è l'archetipo della quest spirituale: la ricerca della verità ultima, della trascendenza, della liberazione dalla ruota della nascita e della morte. Attraversando mari proibiti, incontrando figure simboliche come Siduri (la taverna del mondo, che lo invita a godere della vita presente) e l'Uomo Scorpione (guardiano dell'ignoto), Gilgamesh si addentra nei misteri della vita e della morte.
Il Fallimento e la Saggezza:
La Verità dell'Immortalità Interiore
Gilgamesh raggiunge Utnapishtim, ma il suo tentativo di ottenere l'immortalità fisica fallisce. Non riesce a superare la prova del sonno e perde l'erba della giovinezza. Questo "fallimento" non è una sconfitta, ma una rivelazione profonda. L'immortalità non risiede nella perpetuazione del corpo fisico, né in un'esistenza senza fine come la intendiamo noi. Gilgamesh, pur tornando a Uruk senza l'immortalità terrena, non è più lo stesso re tirannico. Ha acquisito saggezza e consapevolezza. Ha compreso che la vera immortalità risiede nella sua eredità, nella costruzione di una civiltà (le mura di Uruk di cui va orgoglioso), nelle azioni che trascendono la sua vita fisica e nella memoria che lascerà. Soprattutto, ha imparato ad accettare la propria mortalità e a trovare significato e valore nella vita terrena, nella sua finitezza.
Conclusione: L'Epopea come Mappa del Sé
L'Epopea di Gilgamesh, letta attraverso la lente esoterica, emerge come una potente mappa del viaggio iniziatico dell'anima umana. Gilgamesh incarna la coscienza che, dopo aver affrontato e integrato i propri istinti e la propria natura corporea (Enkidu), si confronta con la morte e la ricerca di un significato trascendente. Il fallimento nella ricerca dell'immortalità fisica si trasforma nella rivelazione di una saggezza più profonda: l'immortalità si manifesta non come negazione della morte, ma come piena accettazione della vita e del proprio ruolo nel ciclo cosmico. Questo antico poema ci ricorda che il vero eroismo non sta nel sconfiggere la morte, ma nel vivere pienamente, accettare la propria condizione umana e lasciare un'impronta significativa, permettendo alla nostra coscienza di evolvere e fiorire, trascendendo i limiti del puro corpo e dell'ego. È un'esortazione a integrare ogni parte di noi stessi per raggiungere una completezza spirituale che porta alla pace interiore e a un'esistenza significativa.