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La Torre d'Avorio di Foucault e l'Occhio Spirituale di Gurdjieff: Una Critica Radicale


Nel panorama del pensiero contemporaneo, poche figure hanno esercitato un'influenza così pervasiva come Michel Foucault. Le sue analisi del potere, del sapere e della genealogia delle istituzioni hanno permeato la filosofia, la sociologia, gli studi culturali e oltre. Eppure, se ci poniamo nell'ottica del Quarto Stato di Gurdjieff, della sua ricerca incessante della vera conoscenza e della sua critica impietosa della sonnolenza ordinaria dell'essere umano, la grandiosa impalcatura foucaultiana comincia a mostrare crepe profonde, rivelando una magnifica descrizione dei sintomi, ma una cecità quasi totale riguardo alla diagnosi radicale e alla vera cura. Foucault, con la sua erudizione sterminata e la sua prosa tagliente, ha dissezionato le strutture del potere con la precisione di un chirurgo. Ha mostrato come il potere non sia solo repressivo, ma anche produttivo, plasmando i corpi e le menti, generando discorsi e verità. Le sue analisi delle prigioni, delle cliniche, delle scuole e della sessualità sono veri e propri capolavori di decostruzione. Ma è proprio qui che emerge la prima e più fondamentale critica dal punto di vista gurdjieffiano: Foucault rimane intrappolato nella superficie fenomenica. Egli descrive con acume le manifestazioni del potere nella società, le sue tecniche, le sue strategie, ma non scende mai al livello della causa prima, del motore intrinseco che rende l'essere umano così suscettibile a tali manipolazioni.


Il Carcere dell'Io Foucaultiano: L'Assenza di un "Io Reale"

La nozione di soggetto in Foucault è intrinsecamente legata alle forze che lo modellano. Il soggetto non è un'entità autonoma preesistente, ma il prodotto di pratiche discorsive e relazioni di potere. Questa prospettiva, per quanto innovativa, stride violentemente con l'insegnamento di Gurdjieff, per il quale l'individuo ordinario non possiede un "Io" unificato e permanente, ma una pluralità di "piccoli io" contraddittori, effimeri, reattivi. Foucault descrive il panopticon esterno, le prigioni visibili e invisibili che ci circondano, ma sembra ignorare il panopticon interno, il carcere della nostra stessa frammentazione, delle nostre identificazioni meccaniche, delle nostre reazioni automatiche. Per Gurdjieff, la vera prigione non è solo quella costruita dalle istituzioni, ma quella che l'uomo costruisce inconsciamente dentro di sé. La mancanza di coscienza di sé, l'assenza di un centro di gravità stabile, rende l'individuo una marionetta facilmente manovrabile dalle forze esterne, siano esse i meccanismi del potere o le influenze sociali. Foucault ci mostra le catene esteriori, ma non riconosce le catene invisibili della nostra stessa ignoranza e sonnolenza. Egli analizza il sapere come forma di potere, ma non contempla un tipo di sapere diverso, un sapere esoterico, un sapere dell'essere che non è finalizzato al controllo, ma alla liberazione interiore.


La Genealogia Senza "Evoluzione Consapevole": Un Materialismo Sospetto

La genealogia foucaultiana, sebbene potente nel tracciare l'origine e l'evoluzione delle pratiche e dei discorsi, si ferma alla dimensione storica e materiale. Foucault analizza la "volontà di sapere" e la "volontà di potere" come forze immanenti e auto-generate all'interno della società. Ma dal punto di vista gurdjieffiano, queste "volontà" non sono che manifestazioni secondarie di una realtà più profonda. La mancanza di un'indagine sulle leggi cosmiche che governano l'essere umano e l'universo, l'assenza di una considerazione dell'evoluzione consapevole come possibilità e necessità per l'uomo, rende la genealogia di Foucault incompleta, se non fuorviante. Gurdjieff affermava che l'uomo, così come si trova, è un essere incompleto, una "macchina" che può, tuttavia, svilupparsi. Questa possibilità di sviluppo interiore, di un'evoluzione cosciente che va oltre la semplice adattamento sociale o biologico, è completamente assente nel quadro foucaultiano. Foucault descrive il processo attraverso cui l'uomo viene "fabbricato" dalla società, ma non offre alcuna via d'uscita da questa fabbrica, alcuna possibilità per l'individuo di trascendere la sua condizione determinata. Egli rimane prigioniero del determinismo storico e sociale, incapace di scorgere la possibilità di un'autotrasformazione radicale.


Il Problema dei Rimedi: Palliativi per una Diagnosi Incompleta

Ed è proprio qui che si annida la critica più corrosiva: la radicale incapacità di Foucault di proporre un rimedio autentico. Le sue analisi, pur brillanti, si risolvono in una sorta di disincantata constatazione dell'onnipresenza e dell'ineludibilità del potere. Se il potere è ovunque, se il soggetto è una sua costruzione, se la verità è un prodotto del discorso, allora qualsiasi tentativo di liberazione o di cambiamento radicale diventa problematico, se non impossibile. Al massimo, si può sperare in una "cura di sé" intesa come una pratica di auto-disciplina e di autoconfigurazione entro i limiti imposti. Ma questo è un semplice palliativo, una sorta di "giardinaggio dell'anima" che non intacca minimamente le radici del problema. Per Gurdjieff, la vera soluzione non risiede in un cambiamento delle strutture esterne senza un cambiamento interno. La rivoluzione sociale senza la rivoluzione interiore è destinata a fallire, a riprodurre le stesse dinamiche di potere sotto nuove spoglie. La vera liberazione non è una questione di sovvertire il potere, ma di trascendere la propria sonnolenza, di risvegliarsi alla propria vera natura, di acquisire una volontà unificata e una coscienza reale. Questo è il lavoro del Quarto Stato, un lavoro di auto-osservazione, di studio di sé, di lotta contro le proprie identificazioni e le proprie abitudini meccaniche. Foucault offre una potentissima lente d'ingrandimento per osservare la sintomatologia della condizione umana nel mondo moderno: l'asservimento alle norme, la microfisica del potere, la costruzione delle identità. Ma, accecato forse dalla sua stessa grandezza intellettuale e dalla sua adesione a una visione puramente immanente e storica, egli non riesce a penetrare al di là del velo fenomenico. Non vede la malattia sottostante, che non è solo una questione di potere esterno, ma di una fondamentale mancanza di essere nell'uomo. Qualsiasi "rimedio" proposto da Foucault, o deducibile dalle sue opere, si riduce a un aggiustamento di superficie, a un tentativo di riordinare i mobili in una casa che sta bruciando, senza accorgersi del fuoco che divampa dalle fondamenta. La sua diagnosi è illusoria perché ignora la vera natura dell'uomo come essere potenzialmente cosciente, ma attualmente addormentato. In conclusione, mentre Michel Foucault ci ha fornito strumenti inestimabili per comprendere le dinamiche del potere e la costruzione del soggetto nella società, il suo lavoro, letto attraverso la lente del Lavoro di Gurdjieff, si rivela una descrizione magistrale della malattia senza una vera comprensione della sua eziologia profonda. Egli ci mostra le catene esterne, ma non le catene interne; analizza il carcere sociale, ma ignora il carcere dell'anima. Senza questa intuizione fondamentale sulla sonnolenza e la frammentazione dell'essere umano, qualsiasi tentativo di libertà o di miglioramento rimane un mero palliativo, una splendida illusione destinata a perpetuare la stessa condizione di asservimento che intende descrivere. La vera diagnosi, e quindi il vero rimedio, risiede non solo nella decostruzione del potere esterno, ma nella ricostruzione dell'essere interiore, un processo che Foucault, nonostante la sua acutezza, non ha mai veramente contemplato.


Il Manicomio del Sonno:

Gurdjieff Contro la "Ragione" di Foucault e la Sacralità della Follia

Avendo già delineato la macro-critica alla cecità diagnostica di Foucault, ora ci addentriamo nel cuore di una delle sue opere più emblematiche: "Storia della follia nell'età classica". Qui Foucault traccia una genealogia della follia, non come entità patologica immutabile, ma come costruzione storica, prodotto di discorsi e pratiche che l'hanno via via definita, segregata e "medicalizzata". Egli mostra come la follia, da fenomeno tollerato o persino ambiguamente "sacro" in alcune epoche, sia stata progressivamente esclusa, internata, sottoposta al regime della Ragione illuminista e della scienza nascente. Dal punto di vista di Gurdjieff, questa analisi, per quanto impeccabile nella sua ricostruzione storica e nella sua denuncia delle dinamiche di potere, rivela ancora una volta una prospettiva intrinsecamente limitata al piano orizzontale dell'esistenza, incapace di penetrare la verticalità dell'essere. Foucault descrive il processo di "razionalizzazione" della follia come un'esclusione sociale, un confinamento operato dalla "Ragione" dominante. Ma la domanda gurdjieffiana ineludibile è: quale Ragione? E, soprattutto, chi sono questi "normali" che hanno operato tale esclusione?


La "Ragione" Illusoria e il Manicomio Universale

Per Gurdjieff, l'uomo ordinario, l'uomo della "normalità", vive in uno stato di sonno ipnotico. La sua "ragione" non è una Ragione reale, lucida e consapevole, ma una ragione meccanica, condizionata, frammentata. Essa è il prodotto di identificazioni, abitudini, reazioni automatiche, suggestioni esterne. Non è una ragione che scaturisce da un "Io" unificato e da una coscienza profonda, ma la risultante caotica di migliaia di "piccoli io" contraddittori che si alternano al comando. Quando Foucault critica la "Ragione classica" che ha recluso la follia, egli sta criticando, senza saperlo, una "ragione" che è essa stessa una forma di follia. Una follia sistemica, socialmente accettata, che non si manifesta con deliri o allucinazioni individuali, ma con la cieca adesione a convenzioni, con la totale identificazione con ruoli sociali, con l'incapacità di vedere oltre la superficie delle cose, con la costante reattività emotiva e la mancanza di una vera volontàL'argomento potente è questo: Se la "normalità" è definita dalla capacità di funzionare all'interno di un sistema sociale basato sulla sonnolenza e la meccanicità, allora la segregazione della follia da parte di questa "normalità" non è altro che il confinamento di una forma di follia da parte di un'altra. I "normali" che rinchiudevano i "folli" non erano esseri risvegliati e consci, ma individui altrettanto prigionieri delle loro illusioni, delle loro paure, dei loro condizionamenti. In altre parole, sono i "pazzi" (nel senso gurdjieffiano di esseri meccanici e inconsapevoli) che hanno isolato altri "pazzi" (quelli le cui manifestazioni meccaniche erano più disruptive o non conformi). La "Storia della follia" di Foucault diventa così, da un punto di vista più elevato, la storia di un grande manicomio universale, dove i "guardiani" e i "detenuti" sono entrambi, a diversi livelli e con diverse espressioni, soggetti alla stessa fondamentale malattia: la mancanza di coscienza di sé. Il confine tra ragione e follia, così come descritto da Foucault, appare non come un muro invalicabile eretto dalla lucida ragione, ma come un'ulteriore, arbitraria e meccanica, demarcazione interna a uno stato di sonno collettivo.


La Follia: Né Sacra, Né Via di Salvezza

Un altro punto di attrito emerge dalla critica, implicita o esplicita in certi filoni di pensiero influenzati da Foucault, che attribuisce alla condizione di follia una dimensione quasi-sacra, una sorta di "resistenza" alla ragione omologante, o persino una via di accesso a verità non convenzionali. Alcuni hanno interpretato la follia come una forma di rottura salvifica con la logica dominante, una via per esplorare dimensioni "altre" dell'esperienza. Per Gurdjieff, questa idea è pericolosamente fuorviante e romanticamente illusoria. La follia, in qualsiasi sua manifestazione estrema (quelle che riconosciamo clinicamente), non è una condizione di maggiore coscienza o di superiore intuizione. È, al contrario, una forma di disintegrazione dell'essere, una rottura dei collegamenti tra i centri, un'incapacità di mantenere la coerenza e l'unità dell'organismo. Non c'è nulla di "sacro" nella disfunzione, nel caos mentale, nella perdita di contatto con la realtà. La "sacralità" che Gurdjieff ricerca è quella della vera Presenza, della coscienza attiva, della Ragione superiore che nasce dalla sintesi dei centri e dall'integrazione di tutte le funzioni dell'essere. Questa non è una "follia divina", ma una sana e vigile integrazione. Affermare che la follia sia una via di conoscenza o una forma di liberazione equivarrebbe a dire che la febbre è una condizione di salute superiore, o che una macchina rotta sia più efficiente di una funzionante. È un'inversione perniciosa, che glorifica la patologia invece di riconoscere la necessità di un lavoro di riordinamento e di risveglio. In sintesi, "Storia della follia" di Foucault è un'analisi brillante dei meccanismi sociali e storici della segregazione, ma rimane prigioniera di una visione che non riconosce la follia intrinseca della "normalità". Gurdjieff ci costringe a guardare oltre il manicomio visibile, per riconoscere il manicomio invisibile della nostra stessa incoscienza, dove i "normali" sono semplicemente coloro le cui allucinazioni e deliri sono condivisi dalla maggioranza. E in questo vasto manicomio, la follia conclamata non è una via di salvezza o di rivelazione, ma un'ulteriore espressione della frammentazione di un essere che attende solo di risvegliarsi. La vera liberazione non sta nel reinterpretare la follia, ma nel trascenderla, sia essa quella manifesta o quella celata sotto il velo della "ragione" ordinaria.


Fromm e Gurdjieff: 

La Follia della Normalità e il Sonno Meccanico

La potente intuizione di Erich Fromm sulla "patologia della normalità" si allinea in modo straordinario e inquietante con l'insegnamento di Gurdjieff sulla natura meccanica e "addormentata" dell'uomo ordinario, culminando nella scomoda verità che la maggior parte dell'umanità vive in uno stato di follia sottile, accettata e persino celebrata. Entrambi i pensatori, pur con linguaggi e percorsi diversi, squarciano il velo dell'illusione sociale che definisce la "salute mentale" come semplice conformità e adattamento. Fromm, radicato nella psicoanalisi e nella critica sociale, osserva come le società moderne creino una "malattia di massa" che viene scambiata per salute. Individui che si adattano perfettamente a una società alienante, competitiva, consumistica e che soffoca la vera individualità, sono considerati "normali" e "sani". Ma questa "normalità" è, in realtà, una patologia. È l'alienazione dal proprio vero Sé, la repressione dei propri bisogni più profondi di crescita, amore e autenticità, in favore di una facciata sociale. La persona "normale" è quella che ha rinunciato alla sua autonomia critica, che ha interiorizzato valori esterni e distruttivi, che vive in uno stato di auto-inganno costante riguardo ai propri desideri e alla propria felicità. È il conformista, l'individuo-massa che vive una vita dettata dalle aspettative esterne, non da una propria volontà interiore. Questo parallelo con Gurdjieff è lampante. Per Gurdjieff, l'uomo ordinario non è semplicemente "malato" in senso psicologico, ma è letteralmente "addormentato" e "meccanico". Egli non ha un "Io" unificato, ma è un insieme di reazioni automatiche, un mero riflesso delle influenze esterne. Le sue azioni, pensieri e sentimenti non nascono da una scelta consapevole, ma sono il risultato di programmi interiori acquisiti passivamente. Questo stato di sonnolenza è la vera "normalità" dell'umanità. L'individuo "normale" gurdjieffiano è quello che vive senza alcuna vera coscienza di sé, che si identifica con ogni pensiero o emozione passeggera, che è una marionetta delle sue abitudini e dei suoi "piccoli io" contraddittori. La sintesi delle due visioni è potentissima: la "normalità" che Fromm denuncia come patologica è precisamente lo stato di "sonno meccanico" descritto da Gurdjieff. Entrambi argomentano che la maggior parte degli esseri umani non è veramente libera, non è veramente se stessa, e quindi non è veramente "sana" nel senso profondo del termine. Fromm vede la patologia nell'adesione cieca a un sistema che deumanizza; Gurdjieff vede la patologia nella fondamentale frammentazione e incoscienza dell'essere umano. La "normalità" è patologica perché, per Fromm, porta all'alienazione e alla nevrosi sociale; per Gurdjieff, porta all'assenza di vera coscienza, alla dispersione dell'energia e all'impossibilità di una reale evoluzione interiore. Se la follia è la perdita di contatto con la realtà, Gurdjieff (e Fromm, per implicazione) suggerirebbero che la "realtà" con cui i "normali" sono in contatto è essa stessa una realtà distorta, una costruzione illusoria collettiva. L'uomo "normale" è folle perché vive in un sogno, scambia le sue fantasie, le sue paure e le sue convenzioni sociali per la verità ultima. Si identifica completamente con la sua persona esteriore, con il suo ruolo sociale, dimenticando o non riconoscendo mai la possibilità di un'interiorità più profonda, di un "Io" reale. Dunque, l'idea di Gurdjieff che gli uomini ordinari meccanici sono tutti pazzi non è un'iperbole crudele, ma una diagnosi lucida. Essi sono "pazzi" non nel senso clinico di deliri e allucinazioni individuali, ma nel senso profondo di vivere una vita non autentica, non consapevole, reattiva e priva di una vera direzione interiore. La loro "ragione" è una funzione meccanica, non una facoltà cosciente. Sono "pazzi" perché si credono liberi quando sono schiavi, si credono svegli quando sono addormentati, si credono individui quando sono mere repliche di schemi sociali. Fromm descrive le conseguenze psicologiche e sociali di questa follia di massa: nevrosi diffuse, solitudine mascherata, violenza repressa, incapacità di amare veramente. Gurdjieff va alle cause ontologiche di questa follia: la mancanza di coscienza di sé, la dispersione dei centri, l'assenza di un vero "padrone" interiore. Entrambi, in definitiva, ci spingono a guardare al di là della facciata della "normalità" e a riconoscere che, finché non ci sarà un risveglio e una vera integrazione interiore, la maggior parte dell'umanità continuerà a vivere in un manicomio collettivo, dove la follia più pericolosa è proprio quella che si nasconde sotto il velo della "ragione" e del "buon senso" comune. La vera salute, sia per Fromm che per Gurdjieff, non è adattamento passivo, ma un atto di non-identificazione interiore consapevole contro la patologia della normalità, recitando un ruolo all'esterno senza esserne identificati.



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