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Il Significato Originario di "Coscienza" (Syneidesis), Etimologicamente e Filologicamente, coincide con le spiegazioni di Gurdjieff


Il termine specifico "coscienza" (nel senso di "syneidesis" in greco) non appare direttamente nei Vangeli. Tuttavia, la realtà a cui la parola "coscienza" si riferisce è presente e viene espressa attraverso altri concetti e simboli. Nell'Antico Testamento, ad esempio, è spesso il "cuore" a indicare la capacità di giudizio morale e l'interiorità dell'uomo. È soprattutto negli scritti di San Paolo nel Nuovo Testamento che il termine greco "syneidesis" ricorre frequentemente (circa 30 volte), approfondendo il concetto di coscienza in diverse sfumature, dalla semplice consapevolezza alla sua qualità morale (coscienza retta, buona, contaminata, ecc.). Quindi, pur non trovando il termine "coscienza" esplicitamente nei Vangeli, i principi e le dinamiche ad essa correlate sono comunque sottesi e fondamentali nell'insegnamento di Gesù, che si concentra sull'interiorità, la moralità delle azioni e il rapporto personale con Dio. Il termine "coscienza" ha radici antiche, ma il suo significato si è evoluto nel tempo. In italiano, l'etimologia di "coscienza" deriva dal latino "conscientia", che a sua volta viene da "conscire" (composto da "cum" che significa "con" e "scire" che significa "sapere"). Il senso originale era "sapere insieme", "conoscenza comune" o "consapevolezza condivisa", spesso con una connotazione morale, come "essere a conoscenza di un illecito". Nel mondo greco, un concetto simile era espresso con la parola "syneidesis", che si trova negli scritti di autori come Democrito (V secolo a.C.) e nei filosofi stoici. È negli scritti di San Paolo nel Nuovo Testamento (in greco, appunto, "syneidesis") che il termine assume un'importanza teologica significativa, indicando la capacità dell'uomo di giudicare moralmente le proprie azioni e quelle altrui, in relazione alla legge divina inscritta nel cuore.

Per quanto riguarda la prima attestazione in testi specifici:

  • In latino, il termine "conscientia" appare in testi giuridici romani, ad esempio in scrittori come Cicerone.

  • In inglese, le prime attestazioni del termine "conscience" risalgono al XIII secolo, derivando dall'Old French "conscience" e dal latino "conscientia".

  • In italiano, il termine "coscienza" è attestato da epoche remote, ma la parola "consapevolezza" (spesso usata come sinonimo o affine) entra più tardi, con le prime occorrenze nel XVI secolo.

Quindi, sebbene il concetto di una "coscienza interiore" sia presente in varie forme in testi antichi, la formalizzazione e l'uso del termine specifico "coscienza" (o i suoi equivalenti nelle diverse lingue) si sono sviluppati nel corso dei secoli, acquisendo sfumature sempre più specifiche, soprattutto in ambito filosofico, teologico e psicologico. Il termine greco συνείδησις (syneidesis) è di fondamentale importanza per comprendere lo sviluppo del concetto di "coscienza" nel pensiero occidentale. Approfondiamo la sua etimologia e il suo uso nella filologia.


Etimologia di Syneidesis

Il termine συνείδησις (syneidesis) deriva dal verbo greco συνείδειν (syneidein), che è composto da:

  • σύν (syn): preposizione che significa "con", "insieme", "comune".

  • εἰδέναι (eidenai): forma atematica di οἶδα (oida), che significa "sapere", "conoscere", "avere visto" (da cui "conoscenza").

Letteralmente, quindi, συνείδησις significa "conoscere insieme" o "sapere con". Questa "conoscenza insieme" può riferirsi a diversi aspetti:

  1. Conoscenza condivisa: Sapere qualcosa con qualcun altro, essere a conoscenza di un fatto insieme ad altri.

  2. Conoscenza di sé: In senso più profondo, significa sapere qualcosa "con se stessi", ovvero essere consapevoli delle proprie azioni, intenzioni e pensieri. È questo il senso che si avvicina di più al nostro concetto moderno di coscienza.

  3. Conoscenza morale: Spesso implica una conoscenza delle proprie azioni in relazione a un criterio morale, un giudizio interiore sul bene e sul male.


Filologia e Uso di Syneidesis nei Testi Greci

L'uso del termine "syneidesis" e lo sviluppo del concetto di coscienza possono essere tracciati attraverso diversi periodi della letteratura e della filosofia greca:

  • Periodo Pre-classico e Classico: Nelle opere più antiche, come quelle di Omero, il concetto di una "coscienza" interiore nel senso moderno è meno esplicito. Si parla piuttosto di "cuore" (θυμός, thumos; καρδία, kardia) o "mente" (νοῦς, nous) come sedi delle emozioni, dei pensieri e talvolta del giudizio morale. Tuttavia, già in autori come Democrito (V secolo a.C.) si trovano accenni a una forma di auto-giudizio o consapevolezza interiore.

  • Sofisti e Socrate: Con i Sofisti e in particolare con Socrate, emerge un'enfasi sull'interiorità dell'uomo e sull'importanza della conoscenza di sé ("γνῶθι σεαυτόν" - "conosci te stesso"). Anche se Socrate non usa il termine "syneidesis" nel senso paolino, il suo "δαιμόνιον" (daimonion), una voce interiore che lo dissuadeva dal compiere azioni sbagliate, può essere visto come un precursore del concetto di coscienza morale.

  • Platone e Aristotele: In Platone, il concetto di anima (ψυχή, psychē) e la sua tripartizione (razionale, irascibile, concupiscibile) toccano aspetti legati alla moralità e al controllo interiore, ma "syneidesis" non è un termine centrale. In Aristotele, la discussione sull'etica e sulla virtù, sul ruolo della ragione pratica (φρόνησις, phronesis) nel discernimento morale, getta le basi per una comprensione più articolata del giudizio interiore.

  • Ellenismo (Stoicismo in particolare): È nel periodo ellenistico, e in particolare nella filosofia stoica, che il termine "syneidesis" assume un ruolo più prominente e si avvicina al significato di "coscienza" come la intendiamo oggi. Gli Stoici enfatizzano l'importanza della ragione (λόγος, logos) come guida morale e la capacità dell'individuo di esaminare le proprie azioni e motivazioni. "Syneidesis" diviene la consapevolezza morale, il giudizio che l'individuo emette su se stesso.

  • Nuovo Testamento (San Paolo): Come accennato, è negli scritti di San Paolo che "syneidesis" trova la sua massima espressione e approfondimento nel contesto giudaico-cristiano. Paolo usa il termine per indicare la capacità innata dell'uomo di percepire la legge morale, anche in assenza di una legge scritta. La coscienza può essere "buona" (ἀγαθή), "pura" (καθαρά), "debole" (ἀσθενής), o "cattiva/contaminata" (πονηρά/βεβηλωμένη), riflettendo il suo stato morale e il suo funzionamento. Questo uso paolino ha influenzato profondamente lo sviluppo teologico e filosofico del concetto di coscienza nel cristianesimo.

In sintesi, la filologia di "syneidesis" rivela un'evoluzione dal senso letterale di "conoscere insieme" a un significato sempre più interiorizzato e moralmente connotato, che culmina nell'uso stoico e, soprattutto, paolino, dove diventa un concetto chiave per la comprensione dell'interiorità morale umana.


La Coscienza come "Conoscere Insieme" nei Centri di Gurdjieff

Gurdjieff insegnava che l'essere umano non è un'unità monolitica, ma un complesso di diverse "menti" o centri: il centro intellettuale, il centro emozionale e il centro istintivo/motorio. Ognuno di questi centri ha un proprio modo di percepire, elaborare informazioni e "conoscere".

  • Centro Istintivo/Motorio: Conosce attraverso il corpo, i sensi, gli istinti e i movimenti. La sua "conoscenza" è immediata, pratica, legata alla sopravvivenza e all'azione.

  • Centro Emozionale: Conosce attraverso i sentimenti, le intuizioni, le attrazioni e le repulsioni. La sua conoscenza è di tipo qualitativo, legata ai valori e al significato personale.

  • Centro Intellettuale: Conosce attraverso il ragionamento, l'analisi, la logica e la sintesi. La sua conoscenza è concettuale, astratta e basata sulla comprensione.

Il significato originario di "coscienza" come "conoscere insieme" si allinea perfettamente con l'idea di Gurdjieff di un funzionamento simultaneo e armonico di questi centri. Nella persona ordinaria, questi centri operano in modo scoordinato, spesso in conflitto tra loro. Il pensiero può andare in una direzione, l'emozione in un'altra e il corpo reagire in modo incoerente. Non c'è un vero "conoscere insieme". Per Gurdjieff, lo sviluppo della coscienza implica che questi strumenti di conoscenza imparino a lavorare in modo integrato. Quando il centro intellettuale non domina tirannicamente, ma si apre all'intelligenza del corpo e alla saggezza delle emozioni, e viceversa, allora si verifica una vera "conoscenza insieme". È attraverso questa armonizzazione che emerge una percezione più completa e multidimensionale della realtà, che non è solo intellettuale, emotiva o fisica, ma include tutte e tre le dimensioni in modo integrato.


"Sentire Tutte le Contraddizioni in Sé": La Coscienza del "Conoscere Insieme"

La celebre frase di Gurdjieff: "Coscienza significa sentire tutto assieme, e tutto in una volta, le contraddizioni in sé. Sentire simultaneamente che si odia tutto ciò che si ama e si ama tutto ciò che odia", è un'espressione ancora più profonda del "conoscere insieme".

Le contraddizioni interne sono intrinseche alla natura umana, specialmente quando i centri non sono integrati. Gurdjieff non intendeva l'eliminazione di queste contraddizioni, ma la loro percezione simultanea e consapevole. Questo è il cuore del "conoscere insieme" a livello più elevato:

  • Riconoscimento dell'Interezza: Invece di sopprimere o negare le parti di sé che ci sembrano inaccettabili (odio per ciò che amiamo, amore per ciò che detestiamo), la coscienza ci permette di "conoscerle insieme", di vederle come aspetti contemporanei della nostra complessità. Non è una questione di risolvere la contraddizione logicamente, ma di abbracciarla esperienzialmente.

  • Consapevolezza Non-Giudicante: Questo "sentire tutto assieme" implica una forma di osservazione senza identificazione. Non ci si identifica né con l'amore né con l'odio esclusivo, ma si osserva la loro coesistenza. È un "sapere con se stessi" nel senso più intimo, che include anche le proprie ombre e ambivalenze.

  • Energia Disponibile: Gurdjieff sosteneva che gran parte della nostra energia è sprecata nei conflitti interni, nel tentativo di negare o risolvere forzatamente queste contraddizioni. Quando si è in grado di sentirle simultaneamente, quella stessa energia che era bloccata nel conflitto diventa disponibile per la vera coscienza e per l'azione consapevole.

In questo senso, la coscienza non è solo una funzione, ma uno stato dell'essere che emerge dalla capacità di "conoscere insieme" sia le diverse modalità di percezione dei centri, sia le intrinseche e spesso paradossali verità della propria interiorità. È il riconoscimento onesto e simultaneo di tutta la propria realtà, comprese le parti che la mente ordinaria preferirebbe dividere o nascondere. La transizione del significato di "coscienza" verso una connotazione prevalentemente morale è un processo che ha radici ben prima di San Paolo, ma è indubbio che con lui tale accezione acquisti una centralità e una profondità teologica senza precedenti. Ecco una disamina più dettagliata.


Radici Pre-Paoline della Connotazione Morale

Anche se il termine greco syneidesis originariamente significa "conoscere insieme" o "sapere con", l'idea di un giudizio interiore sulle proprie azioni è presente in varie forme nel pensiero antico:

  1. Filosofia Greca:

    • Democrito (V secolo a.C.): È uno dei primi a usare syneidesis in un senso che si avvicina al rimorso o al rimprovero interiore per un'azione compiuta. Egli afferma che "l'uomo malvagio è da solo per tutta la vita con la sua coscienza [syneidesis]". Qui, la "conoscenza insieme" diventa una "conoscenza con se stessi" riguardo alla propria condotta, portando a un'autocritica.

    • Filosofi Stoici (III secolo a.C. in poi): Gli Stoici sviluppano ulteriormente il concetto di syneidesis come una coscienza morale, la capacità della ragione (logos) di discernere il bene dal male e di giudicare le proprie azioni in base a principi etici universali. Per loro, la coscienza è un giudice interiore che approva o disapprova, guidando l'uomo verso una vita virtuosa in accordo con la natura. È un aspetto fondamentale della loro enfasi sull'autosufficienza morale e sulla responsabilità individuale.

  2. Letteratura Greca (Tragedia): Nelle tragedie greche, sebbene non usino esplicitamente il termine syneidesis in senso morale come poi farà Paolo, si trovano espressioni di senso di colpa, rimorso e tormento interiore che prefigurano il ruolo della coscienza. Le Furie, ad esempio, in Eschilo, possono essere viste come una proiezione esterna di un tormento interiore per la colpa.

  3. Pensiero Giudaico: Nell'Antico Testamento e nella letteratura intertestamentaria (come i Libri sapienziali o i manoscritti di Qumran), sebbene non si trovi il termine greco syneidesis, il concetto di un "cuore" che scruta, giudica e rimprovera è molto presente. Il cuore è la sede della volontà, delle intenzioni e della responsabilità morale di fronte a Dio.


La Centralità di San Paolo

È innegabile che con San Paolo il termine syneidesis acquisisca una centralità e una valenza teologica e morale preminente che influenzerà profondamente il pensiero cristiano e occidentale. Paolo ne parla circa 30 volte nelle sue lettere.

Per Paolo:

  • La coscienza come testimone: La syneidesis è un testimone interiore, una facoltà che attesta la rettitudine o la colpa di un'azione. È come un tribunale interiore.

  • La legge inscritta nel cuore: In Romani 2,14-15, Paolo afferma che anche i pagani, pur non avendo la Legge di Mosè, mostrano che "l'opera della legge è scritta nei loro cuori; la loro coscienza ne dà testimonianza e i loro pensieri si accusano o si difendono a vicenda". Questo è un punto cruciale: la coscienza è la voce di una legge morale universale inscritta nella natura umana, un dono di Dio.

  • Diversi tipi di coscienza: Paolo parla di una coscienza "buona" (1 Timoteo 1,5), "pura" (1 Timoteo 3,9), "debole" (1 Corinzi 8,7-12) e persino "contaminata" (Tito 1,15). Questo mostra che la coscienza non è un organo infallibile, ma può essere influenzata, formata o deformata.

  • Relazione con la libertà e la carità: Paolo discute la coscienza anche in relazione alla libertà cristiana e alla carità (es. mangiare carni sacrificate agli idoli in 1 Corinzi 8). Anche se un'azione può essere "lecita" in sé, si deve tenere conto della coscienza del fratello più debole per non farlo peccare o scandalizzarlo. Qui, la coscienza assume una dimensione relazionale e comunitaria.

Quindi, mentre il significato di "coscienza" come "conoscere insieme" ha radici etimologiche neutre, la sua evoluzione verso una connotazione morale più forte e sistematica inizia a manifestarsi chiaramente con i filosofi greci (in particolare Democrito e gli Stoici). Tuttavia, è con San Paolo che questa connotazione morale diventa predominante, profondamente elaborata e integrata in una visione teologica complessiva dell'essere umano di fronte a Dio. La sua enfasi sulla coscienza come testimone della legge divina interiore e come guida morale ha avuto un'influenza duratura sulla teologia morale e sulla comprensione occidentale della coscienza. In origine, il termine greco συνείδησις (syneidesis) e il verbo correlato συνείδειν (syneidein) / σύνοιδα (synoida) significavano primariamente "conoscere insieme", "essere a conoscenza di qualcosa con qualcuno" o "essere consapevole di qualcosa".

Analizziamo come si sviluppa il suo significato:

1. Il Significato Base: Conoscenza Condivisa o Consapevolezza

All'inizio, il senso più comune era quello di una conoscenza condivisa, simile a quella che si ha con un testimone, un confidente o un complice.

  • Esempio: Se due persone sanno di un fatto, hanno una syneidesis di quel fatto. Un testimone di un evento "conosce insieme" a chi ha commesso l'azione.

Da questo, si è sviluppato il significato di consapevolezza generale, non necessariamente morale. Essere synoida di qualcosa significava semplicemente "esserne a conoscenza" o "esserne consapevole".

  • Esempio: Si poteva essere synoida che non si è saggi (come nel caso di Socrate, citato da Senofonte).

2. La Transizione al "Conoscere con Se Stessi" e l'Emergere della Connotazione Morale

Il passaggio cruciale avviene quando il "conoscere insieme" si riflette su se stessi. Diventa un "conoscere con se stessi" (spesso espresso con un pronome riflessivo come συνείδειν ἑαυτῷ - conoscere con se stessi), o semplicemente il nome syneidesis acquisisce questa sfumatura intrinseca.

Questo "conoscere con se stessi" può riguardare qualsiasi fatto, ma è qui che la connotazione morale inizia a emergere in modo più netto:

  • Consapevolezza di Azioni (positive o negative): Una persona è consapevole delle proprie azioni, buone o cattive. Questo porta naturalmente a un auto-giudizio. Se si è consapevoli di aver commesso un'azione sbagliata, questo "conoscere con se stessi" può generare disagio, rimorso o senso di colpa.

  • Rimorso e Rimprovero Interiore: Già in autori come Democrito (V secolo a.C.) e nelle tragedie greche, si trovano esempi dove syneidesis o il suo verbo correlato indicano il tormento interiore o il rimprovero che una persona prova per le proprie cattive azioni. È la "voce" che non ti lascia in pace.

  • Approvazione Interiore: Al contrario, poteva anche indicare la consapevolezza della propria innocenza o rettitudine, portando a una sensazione di pace interiore.

3. Gli Stoici e la Sistematizzazione della Coscienza Morale

Come menzionato, è con la filosofia Stoica (a partire dal III secolo a.C.) che il concetto di syneidesis come coscienza morale viene significativamente sviluppato e sistematizzato. Per gli Stoici, la syneidesis è la facoltà razionale che giudica le proprie azioni in relazione alla Legge Universale (il Logos). È la capacità di auto-riflessione e auto-valutazione etica.

In origine, syneidesis era un termine ampio per "consapevolezza" o "conoscenza condivisa". Il suo passaggio a una connotazione morale non è stato un salto improvviso, ma un'evoluzione graduale. È avvenuto man mano che il "conoscere insieme" si è riflesso sull'individuo stesso ("conoscere con se stessi"), portando alla consapevolezza delle proprie azioni (buone o cattive) e al conseguente giudizio interiore. Filosofi come Democrito e gli Stoici hanno giocato un ruolo cruciale nell'articolare e concettualizzare questa dimensione morale, prima che San Paolo la elevasse a un principio teologico fondamentale nel cristianesimo.

Nel greco antico, non c'è una singola parola che si traduce perfettamente e univocamente con il nostro concetto moderno e complesso di "rimorso". Piuttosto, ci sono diverse parole e frasi che esprimono sfumature di rimpianto, rammarico, dolore per un'azione passata, pentimento e cambiamento di mente, alcune delle quali possono sovrapporsi al "rimorso".

Le parole più comuni che esprimono concetti vicini al rimorso sono:

  1. μεταμέλομαι (metamelomai):

    • Etimologia: Deriva da metá (dopo, cambiamento) e mélō (avere cura, essere interessato, preoccuparsi). Letteralmente significa "avere cura dopo", "preoccuparsi in seguito", "cambiare la propria preoccupazione".

    • Significato: Questa è probabilmente la parola che si avvicina di più al nostro "rimorso" in senso emotivo. Esprime un rammarico, un dispiacere o un rimpianto per un'azione compiuta. Si riferisce spesso a un sentimento di dolore o tristezza per le conseguenze delle proprie azioni, o per un errore fatto.

    • Uso: Si trova, ad esempio, nel Nuovo Testamento per descrivere il rimorso di Giuda dopo aver tradito Gesù (Matteo 27:3: "Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, fu preso da rimorso [μεταμεληθείς...]"). È un pentimento di tipo emotivo, ma non necessariamente una svolta radicale o un cambiamento di vita.

  2. μετάνοια (metanoia) / μετανοέω (metanoeo):

    • Etimologia: Deriva da metá (dopo, cambiamento) e noéō (pensare, comprendere, percepire). Letteralmente significa "cambiare mente", "cambiare modo di pensare" o "ripensare".

    • Significato: Questa parola ha una connotazione più forte di pentimento, conversione, e un cambiamento profondo della propria mentalità e direzione di vita. Mentre metamelomai è più legato al sentimento di rammarico, metanoia implica un atto della volontà, una decisione di cambiare. Il rimorso (metamelomai) può essere una fase che porta alla metanoia, ma non è la metanoia stessa.

    • Uso: È la parola chiave per il concetto di "pentimento" nei Vangeli e negli scritti apostolici ("Convertitevi [μετανοεῖτε], perché il regno dei cieli è vicino!").

  3. λύπη (lypē):

    • Etimologia: "Dolore", "pena", "tristezza".

    • Significato: È un termine più generale per "dolore" o "tristezza", ma può essere usato in contesti dove il dolore è causato da rimorso o pentimento. San Paolo, ad esempio, parla di "tristezza secondo Dio" (2 Corinzi 7:10: ἡ γὰρ κατὰ Θεὸν λύπη μετάνοιαν εἰς σωτηρίαν ἀμεταμέλητον κατεργάζεται - "perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento che porta alla salvezza e di cui non c'è da pentirsi"). Qui, la lypē è il sentimento che spinge alla metanoia.

  4. τύψις (typsis) / τύπτω (typtō):

    • Etimologia: Deriva dal verbo typtō che significa "battere", "colpire", "urtare".

    • Significato: Typsis significa "colpo", "morso", "punto". Può riferirsi al "morso della coscienza" (come nel latino conscientiae morsus). Sebbene meno comune di syneidesis o metamelomai per il rimorso diretto, il senso di essere "colpiti" o "punti" interiormente per un'azione è molto vicino all'esperienza del rimorso. Oggi, in greco moderno, "τύψεις συνειδήσεως" (typseis syneideseos) è l'espressione standard per "rimorsi di coscienza".

In sintesi, mentre μεταμέλομαι (metamelomai) è la parola greca più vicina al nostro "rimorso" in termini di sentimento di rammarico per un'azione passata, è importante ricordare il contesto in cui viene usata e le sfumature rispetto ad altri termini come metanoia (pentimento e cambiamento di mente) e syneidesis (coscienza).

Nel Sanscrito antico, il concetto di "coscienza" è espresso attraverso diverse parole, ognuna con sfumature e contesti specifici, piuttosto che un unico termine onnicomprensivo come potremmo intenderlo oggi. La comprensione della coscienza era profondamente intrecciata con la filosofia e la spiritualità vedica e upanishadica.

I testi più antichi, come i Veda (specialmente il Rig Veda, databile a circa 1500-1200 a.C.) e le Upanishad (circa 800-200 a.C.), contengono i primi riferimenti a concetti che possiamo tradurre con "coscienza". Non c'è un'unica "prima apparizione" di un termine esatto per "coscienza", ma piuttosto un'evoluzione di concetti che si approfondiscono.

I termini più rilevanti che emergono in questi testi includono:

  1. Chetanā (चेतना)

    • Etimologia: Deriva dalla radice cit (चित्), che significa "percepire", "comprendere", "conoscere", "essere consapevole".

    • Apparizione: Questo termine e i suoi derivati (come citta, caitanya) sono tra i più antichi e diretti precursori del concetto di coscienza nel senso di consapevolezza, percezione o vitalità senziente. Appare già nel Rig Veda e nelle prime Upanishad per indicare una "forza vitale" o "spirito che anima". In alcuni contesti può riferirsi alla facoltà di sentire e percepire.

  2. Prajñā (प्रज्ञा)

    • Etimologia: Deriva dalla radice jñā (ज्ञा), "conoscere", preceduta dal prefisso pra- (che indica eccellenza o primato). Quindi, "conoscenza superiore", "saggezza" o "intuizione profonda".

    • Apparizione: Molto importante nelle Upanishad (ad esempio nella Taittiriya Upanishad), dove spesso è associata al Brahman (la Realtà Ultima) o all'Atman (il Sé individuale). Prajñā non è solo coscienza ordinaria, ma una coscienza discriminante, intuitiva e trascendente che conduce alla vera conoscenza e alla liberazione. Nelle Upanishad, Brahman è spesso descritto come Prajñānam Brahma (la coscienza è Brahman).

  3. Vijñāna (विज्ञान)

    • Etimologia: Deriva dalla stessa radice jñā (conoscere), ma con il prefisso vi- che indica "separazione", "distinzione", "analisi".

    • Apparizione: Trovato nelle Upanishad e successivamente nel Buddismo e nel Samkhya. Si riferisce alla conoscenza discriminativa, intellettuale o concettuale, spesso la coscienza fenomenica che distingue gli oggetti e le esperienze. Può essere inteso come una forma di coscienza più "individualizzata" o empirica, in contrasto con la totalità di Prajñā.

  4. Citta (चित्त)

    • Etimologia: Anch'esso dalla radice cit.

    • Apparizione: Presente nelle Upanishad e sviluppato ulteriormente nelle scuole filosofiche successive (Yoga, Buddismo). Citta è la mente-coscienza o il "campo mentale". È il substrato delle funzioni mentali, che include pensiero, memoria, volontà e la capacità di percepire. Non è la coscienza pura, ma il veicolo attraverso cui la coscienza si manifesta a livello mentale.

  5. Ātman (आत्मन्) e Brahman (ब्रह्मन्)

    • Apparizione: Questi sono concetti centrali delle Upanishad. Sebbene non siano "coscienza" in sé, l'Atman (il Sé individuale) e il Brahman (il Sé universale) sono spesso descritti come intrinsecamente coscienti o come la realtà ultima della coscienza pura. Le Upanishad esplorano la natura di questa coscienza fondamentale, identificandola con l'essenza stessa dell'esistenza.

Nei testi vedici più antichi, la consapevolezza è spesso intesa in relazione alle divinità (come Agni o Indra che "sanno" o "percepiscono"). Con le Upanishad, si assiste a una profonda interiorizzazione e astrazione del concetto. La coscienza non è più solo una facoltà dell'individuo, ma viene indagata come la natura fondamentale della realtà stessa. La distinzione tra coscienza empirica (vijñāna) e coscienza trascendente (prajñā) diventa cruciale per comprendere la liberazione (moksha).



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