La figura di Siddharta Gautama, il Buddha, è universalmente riconosciuta per i suoi insegnamenti che mirano alla liberazione dalla sofferenza. Due pilastri della dottrina buddista, spesso interpretati in modo categorico, sono l'Anatta (non-sé) e la presunta negazione di un Dio creatore. Tuttavia, esiste un filone di studi e interpretazioni che suggerisce una lettura più complessa e nuanzata, mettendo in discussione la semplicità di tali negazioni. Questo articolo esplorerà le tesi di alcuni studiosi che si discostano dall'ortodossia, per poi proporre una prospettiva alternativa che potrebbe spiegare il presunto fraintendimento.
Studiosi e le Loro Tesi sul "Sé" nel Buddismo
La dottrina dell'Anatta è comunemente intesa come la negazione di qualsiasi anima o "io" permanente e immutabile. L'individuo sarebbe invece un aggregato di fenomeni transitori (i cinque skandha: forma, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza). Tuttavia, alcuni studiosi hanno proposto interpretazioni più sottili.
Kamaleswar Bhattacharya e l'Ātman Nascosto
Uno dei nomi più prominenti in questo dibattito è quello di Kamaleswar Bhattacharya. Nelle sue opere, come The Ātman-Brahman in Ancient Buddhism, Bhattacharya sostiene che il Buddha non negasse affatto l'esistenza di un Ātman (il Sé universale o Brahmanico, concetto centrale nell'induismo vedico e upanishadico), ma piuttosto il sé empirico, transitorio e illusorio, quello che si identifica con gli aggregati.
La sua tesi si fonda su:
La "Negazione Particolare" (Vipratiṣedha): Bhattacharya argomenta che quando il Buddha afferma che gli skandha "non sono il Sé" (neti neti - "non questo, non quello"), non sta negando il Sé in assoluto, ma sta piuttosto indicando che il vero Sé non si trova in ciò che è impermanente e condizionato. Questa sarebbe una negazione discriminante, volta a separare il Sé autentico da ciò che non lo è. Implicito in questa negazione di ciò che il Sé non è, ci sarebbe l'affermazione dell'esistenza di un Sé che sfugge a tali categorie.
Contesto Upanishadico: Bhattacharya colloca gli insegnamenti del Buddha nel contesto filosofico del suo tempo, fortemente influenzato dalle Upanishad, dove l'Ātman era un concetto centrale. Secondo la sua lettura, il Buddha non avrebbe potuto semplicemente ignorare o negare l'Ātman senza una spiegazione più approfondita, suggerendo che il suo intento fosse piuttosto quello di purificare la comprensione dell'Ātman dalle sue identificazioni erronee.
La Tradizione del Tathagatagarbha nel Buddhismo Mahayana
Nel Buddhismo Mahayana, in particolare con lo sviluppo dei sutra del Tathagatagarbha (come il Tathagatagarbha Sutra e il Mahaparinirvana Sutra), emerge un concetto che ha generato un intenso dibattito. Il Tathagatagarbha (letteralmente "embrione del Tathagata" o "grembo del Buddha") o Buddha-dhatu ("natura di Buddha") si riferisce a una pura essenza di Buddha intrinseca a tutti gli esseri senzienti.
Le basi di questa interpretazione:
Linguaggio "Positivista": Questi sutra descrivono il Tathagatagarbha con attributi che sembrano contraddire la dottrina dell'Anatta, parlando di esso come eterno, puro, immutabile, non nato e non perituro. Termini che ricordano molto le descrizioni dell'Ātman nelle Upanishad.
Natura Inerente del Risveglio: L'idea è che la capacità di risvegliarsi non sia qualcosa di acquisito esternamente, ma una potenzialità o una "natura" già presente e intrinseca. Sebbene i testi del Tathagatagarbha spesso avvertano esplicitamente di non confondere questa "natura di Buddha" con un Ātman brahmanico, la terminologia e le descrizioni hanno spinto molti a vedere una somiglianza concettuale, o almeno un'apertura verso una realtà ultima che non è semplicemente "non-sé" nel senso di totale assenza di una realtà fondamentale.
Studiosi: Accademici come Paul Williams hanno analizzato in dettaglio questi sutra, riconoscendo la loro tendenza a usare un linguaggio che suggerisce una "base" o "essenza" ultima, pur sottolineando le distinzioni fatte dai testi stessi rispetto al concetto induista di Ātman. Anche Robert Sharf, sebbene più critico verso una lettura sostanzialista, ha contribuito enormemente alla comprensione storica e filosofica di queste dottrine.
Il Buddha e la Questione di "Dio"
Il Buddhismo è ampiamente considerato una religione non-teistica, in quanto il Buddha non ha insegnato l'esistenza di un dio creatore onnipotente e onnisciente, né ha posto una tale divinità al centro del sentiero della liberazione. La sofferenza è vista come il risultato di ignoranza e attaccamento, non di una volontà divina. Tuttavia, anche qui, alcune prospettive offrono sfumature.
Raimon Panikkar e l'Equivalenza Interreligiosa
Il teologo e filosofo interculturale Raimon Panikkar è stato un pioniere nel dialogo tra le tradizioni religiose, incluso il cristianesimo e il buddismo. Panikkar non ha mai affermato che il Buddha insegnasse un "Dio" nel senso teistico occidentale, ma ha esplorato come le diverse tradizioni possano esprimere la realtà ultima attraverso linguaggi e concetti diversi.
La sua prospettiva:
Dimensioni del Reale: Panikkar suggerisce che la realtà ha molteplici dimensioni e che le religioni offrono "mithos" (mitologie) e "logos" (logiche) diversi per avvicinarsi ad essa. Il silenzio del Buddha su questioni teistiche non sarebbe una negazione, ma piuttosto un riconoscimento che l'Assoluto trascende le categorie mentali e linguistiche.
Non-Dualità e Trasvalutazione: Panikkar ha cercato "equivalenze omeomorfiche" tra concetti di diverse tradizioni. L'esperienza buddista del Nirvana o della Vacuità (Sunyata), pur non essendo un "Dio" personale, potrebbe rappresentare l'Assoluto o la realtà ultima in un modo che, per alcune coscienze, risuona con la dimensione "divina" o trascendente, seppur in termini non dualistici e impersonali.
Il Fraintendimento del Buddha: Un'Analogia con Gurdjieff
La mia proposta di interpretazione, che ricollega il presunto fraintendimento del Buddha alla filosofia di G. I. Gurdjieff, è affascinante e offre una prospettiva illuminante. Se consideriamo gli insegnamenti del Buddha in quest'ottica, molte delle sue "negazioni" potrebbero non essere affatto negazioni assolute, ma piuttosto affermazioni pragmatiche sulla condizione umana ordinaria.
La tesi proposta:
L'Uomo Meccanico e i "Molti Io": Secondo Gurdjieff, l'essere umano ordinario non possiede un "Io" unificato e permanente. Al contrario, è una collezione di numerosi "io" frammentari, contraddittori e mutevoli, che si manifestano in modo meccanico e reattivo. Questa frammentazione impedisce all'individuo di avere una vera volontà o una coscienza costante. Gurdjieff sosteneva che l'uomo, in questo stato, è essenzialmente "addormentato" e non possiede un'anima nel senso di una realtà eterna e immortale; questa deve essere creata attraverso un lavoro interiore cosciente.
Il Buddha e lo Stato Ordinario: Se applichiamo questa lente al Buddha, la sua enfasi sull'Anatta (non-sé) potrebbe essere interpretata non come la negazione dell'esistenza di un Sé autentico o di un'Anima ultima, ma come la constatazione dello stato effettivo dell'essere umano non risvegliato. L'uomo ordinario, immerso nell'ignoranza (avidya) e nell'attaccamento, non possiede un sé permanente e immutabile nel qui e ora. Il suo "io" è illusorio, transitorio, fatto di aggregati in costante cambiamento. Il Buddha, in questo senso, starebbe semplicemente descrivendo ciò che è per l'uomo meccanico e non risvegliato.
Pragmatismo e Silenzio: Analogamente, il silenzio del Buddha riguardo a un Dio creatore o a un Sé ultimo e trascendente (l'equivalente del "vero Io" di Gurdjieff) potrebbe essere dovuto a un profondo pragmatismo. Se l'obiettivo primario è la liberazione dalla sofferenza e il risveglio, allora è fondamentale che l'individuo prenda coscienza della propria condizione attuale: la mancanza di un sé stabile, l'impermanenza di ogni fenomeno, la natura della sofferenza. Parlare di un "vero Io" o di "Dio" a qualcuno che non ha ancora compreso la propria meccanicità e l'illusorietà del suo "io" convenzionale, potrebbe essere stato ritenuto controproducente, una distrazione speculativa che non conduceva all'azione trasformativa necessaria.
Il "Lavoro" e il Risveglio: Sia il Buddha che Gurdjieff hanno proposto un "lavoro" o un "sentiero" che porta a un cambiamento fondamentale. Per il Buddha, è il Nobile Ottuplice Sentiero. Per Gurdjieff, è il Lavoro su di sé. Entrambi i percorsi iniziano con una chiara comprensione dello stato attuale dell'individuo, con la disillusione rispetto alle false identificazioni. Solo una volta che l'individuo ha riconosciuto la propria frammentazione e impermanenza, può iniziare il vero processo di costruzione di un "Io" (nel senso gurdjieffiano) o di realizzazione della "natura di Buddha" (nel senso Mahayana) o del Nirvana.
In questa luce, il Buddha non avrebbe "negato" l'Assoluto o un Sé ultimo, ma avrebbe semplicemente evitato di discuterne in quanto non erano concetti utili per il primo, fondamentale passo verso il risveglio: la presa di coscienza della propria illusoria identità e la disillusione dalle proiezioni della mente meccanica. L'esperienza diretta e la comprensione della realtà come è per l'uomo ordinario, sarebbe stata la sua priorità, in quanto prerequisito per ogni ulteriore progresso spirituale.