Il dibattito sulla coscienza, la sua origine e la sua efficacia causale, rappresenta uno dei campi più fertili e al contempo più frustranti della scienza e della filosofia contemporanea. Nonostante decenni di ricerca intensiva e progressi tecnologici mozzafiato nelle neuroscienze, sembra che più ci avviciniamo, più il mistero si infittisca. Ogni nuova scoperta o interpretazione, anziché fornire una risposta definitiva, aggiunge un altro pezzo a un puzzle la cui immagine completa rimane sfuggente. Questa situazione ricorda in modo sorprendente due antiche allegorie: quella dei ciechi e dell'elefante e la confusione delle lingue della Torre di Babele.
L'Elefante Neuroscientifico e la Cecità Epistemologica
La parabola indiana dei ciechi e dell'elefante narra di un gruppo di non vedenti che, toccando diverse parti di un elefante, giungono a conclusioni completamente diverse sulla sua natura: chi tocca la proboscide pensa sia un serpente, chi la zampa una colonna, chi la coda una corda, e così via. Nessuno di loro, preso singolarmente, riesce a percepire l'elefante nella sua interezza. Questa immagine è straordinariamente pertinente al modo in cui la scienza contemporanea affronta la coscienza. Abbiamo specialisti che esaminano l'attività neuronale a livello microscopico (i sinapsi, i potenziali d'azione), altri che studiano le reti neurali su larga scala (connettoma), altri ancora che si concentrano sull'esperienza soggettiva attraverso la fenomenologia o la psicologia cognitiva. Ogni disciplina, toccando una "parte" diversa dell'elefante della coscienza, sviluppa una propria interpretazione:
L'Epifenomenismo (la coda): Questa visione, spesso associata a un emergentismo "debole", suggerisce che la coscienza sia un sottoprodotto dell'attività cerebrale, privo di qualsiasi efficacia causale sul cervello stesso. È come il fumo di un motore: presente, ma non influente sul funzionamento meccanico. Chi "tocca" solo l'aspetto della dipendenza della coscienza da stati fisici, senza considerarne le implicazioni sulla causazione, può giungere a questa conclusione, sentendo solo la "coda" inerme. La coscienza è lì, ma non fa nulla.
L'Emergentismo Forte e la Causalità Discendente (la proboscide in movimento): Questa prospettiva, che guadagna terreno soprattutto grazie al concetto di neuroplasticità, propone che la coscienza, una volta emersa, possa a sua volta influenzare e modellare il suo substrato fisico. La neuroplasticità, la capacità del cervello di riorganizzarsi in base all'esperienza e all'intenzione (spesso conscia), è la prova più stringente a favore di questa visione. Se il nostro impegno consapevole nell'apprendere una nuova lingua o nel superare un trauma può alterare le connessioni sinaptiche e le strutture neurali, allora la coscienza non è un mero spettatore passivo. Ma chi "tocca" solo questa capacità di mutamento, senza comprendere l'intera architettura cerebrale, rischia di esagerare la forza causale della coscienza o di ricadere in un dualismo velato.
Il Monismo Fisicalista Riduzionista (la pelle): Cerca di spiegare ogni aspetto della coscienza in termini puramente fisici e neuronali, riducendo la mente al cervello. Qui la tentazione è quella di credere che, una volta mappate tutte le connessioni e comprese tutte le interazioni elettrochimiche, il mistero si dissolverà. Si tocca solo la "pelle" esterna dell'elefante, ignorando la sua complessità interna e la sua capacità di muoversi e agire.
Il problema è che ognuna di queste interpretazioni, pur cogliendo un aspetto vero e valido, fallisce nel fornire una visione coerente e completa del fenomeno. Come i ciechi, i nostri approcci metodologici e le nostre griglie concettuali ci limitano, impedendoci di "vedere" l'elefante nella sua totalità dinamica.
La Torre di Babele della Coscienza: Una Confusione di Linguaggi e Paradigmi
Oltre alla cecità epistemologica, la discussione sulla coscienza soffre di una sorta di "confusione delle lingue" che ricorda la Torre di Babele. Nella narrazione biblica, gli uomini, nel tentativo di costruire una torre che raggiungesse il cielo, videro le loro lingue confuse da Dio, impedendo loro di comprendersi e costringendoli a disperdersi. Oggi, neuroscienziati, filosofi della mente, psicologi cognitivi e fisici parlano spesso linguaggi diversi, mossi da presupposti metodologici e ontologici incompatibili:
Il Linguaggio della Fisica: Parla di particelle, campi, energia e informazione, spesso cercando di ridurre ogni fenomeno a interazioni fondamentali.
Il Linguaggio della Biologia/Neuroscienze: Si concentra su neuroni, sinapsi, reti neurali, circuiti e sistemi, spiegando il comportamento e la cognizione in termini di attività cerebrale.
Il Linguaggio della Psicologia/Filosofia della Mente: Si occupa di intenzioni, credenze, desideri, esperienze qualitative (qualia), libero arbitrio e soggettività.
Il problema non è solo terminologico. È una vera e propria babele concettuale, dove termini come "causalità", "informazione", "emergenza" assumono significati sfumati o addirittura contraddittori a seconda del paradigma di riferimento. Un fisico potrebbe interpretare la causalità in termini di scambio di energia, mentre un filosofo potrebbe intendere l'efficacia causale di un'intenzione. Questa mancanza di un linguaggio unificato e di un quadro concettuale comune ostacola un dialogo costruttivo e rende difficile integrare le scoperte parziali in una teoria unificata. Nell'analogia dell'elefante e dei ciechi, abbiamo visto come ogni disciplina scientifica "tocchi" una parte diversa del fenomeno cosciente, elaborando interpretazioni parziali. Gurdjieff suggerirebbe che il problema è ancora più radicale: non stiamo solo toccando parti diverse, ma potremmo star cercando la "vera" coscienza in ambiti dove essa è assente.