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Homo Credens - Il Grande Sonno della Ragione: Come Abbiamo Imparato a Non Pensare Più


"Il singolare tratto del loro psichismo consistente nel credere soltanto a quanto dicono il "signor Rossi" o il "signor Bianchi", senza sforzarsi di saperne di più, si è radicato in loro da molto tempo, ed essi ormai non si preoccupano nemmeno più di conoscere le cose che possono essere apprese tramite il solo ausilio della riflessione personale attiva".

- G. I. Gurdjieff

Cominciamo con un'istantanea, un piccolo apologo che disvela una delle più pervasive, e forse scomode, verità sulla psiche collettiva. Immaginiamo una scena archetipica: da un lato, uno Scienziato, paludato di titoli e credenziali, la cui oratoria è un intrico di termini altisonanti e razionalità ostentata, eppure, nel profondo, le sue parole sono un fiume di sciocchezze. Dall'altro, un Contadino, privo di lustri accademici, ma dotato di una saggezza innata, di un'intelligenza pratica che gli permette di cogliere la verità con disarmante semplicità. Tra loro, la Massa del Popolo, un'entità fluida, plasmabile, in attesa di un verdetto. Un fenomeno inspiegabile si manifesta. Lo Scienziato, con la sua retorica forbita, offre una spiegazione complessa, apparentemente ineccepibile, ma intrinsecamente errata. Il Contadino, con parole semplici e dirette, espone la verità nuda e cruda. Il risultato? La Massa, quasi per un riflesso condizionato, si prostra dinanzi all'autorità dello Scienziato. La sua spiegazione, per quanto fallace, viene assorbita come dogma. Le parole del Contadino, per quanto veritiere, si disperdono nel vento, ignorate, irrilevanti. Questa non è una favola, ma uno specchio impietoso della realtà. Il funzionamento psichico degli individui che compongono una massa umana non è governato dalla logica ferrea o dal discernimento critico, ma da un atto di fede. Un atto di fede non verso una divinità, ma verso chi detiene l'autorità in un dato momento. Se i rapporti umani, in ogni loro sfaccettatura, si fondano su queste premesse, le conseguenze sono vertiginose e inquietanti. La prima, e più evidente, è la progressiva atrofia del pensiero critico individuale. Perché sforzarsi di analizzare, di dubitare, di discernere, quando la via più semplice è affidarsi alla voce del "sapere" riconosciuto? Questo meccanismo psicologico è una trappola seducente. L'uomo, in quanto essere sociale, è profondamente influenzato dalla gerarchia e dal conformismo. La tendenza a evitare l'uso del proprio discernimento e di un sano ragionamento critico su ciò che si ascolta da terzi è alimentata da molteplici fattori. In primis, l'autorità riconosciuta. Non è solo una questione di titoli di studio, che conferiscono un'aura di competenza inconfutabile. È anche la posizione sociale, che implica influenza e potere, o la posizione economica, che spesso si traduce in credibilità e successo. Questi sono i nuovi oracoli, le cui pronunce vengono assorbite acriticamente, non perché intrinsecamente vere, ma perché pronunciate da chi è "in alto". Il medico con la laurea appesa al muro, il banchiere con il suo portafoglio gonfio, il politico sul podio: le loro parole assumono un peso specifico che trascende il loro contenuto logico. In secondo luogo, e non meno potente, è l'imitazione e l'istinto gregario. L'uomo è un animale sociale, e la pressione del gruppo è un magnete irresistibile. Se "molti hanno scelto il rosso, allora lo scelgo anche io". Questa logica del "si fa così" o "tutti credono questo" è un anestetico per la coscienza critica. La paura di essere emarginati, di apparire diversi, di remare controcorrente, spinge gli individui a uniformarsi, a sposare le narrazioni dominanti, anche quando la loro intima percezione suggerirebbe il contrario. Il consenso diventa la prova della verità, e la dissidenza un sintomo di errore. Dunque, l'idea che l'uomo sia una creatura raziocinante, un essere che pondera, analizza e decide sulla base di evidenze logiche, si rivela una chimera. Un'illusione confortante, forse necessaria per mantenere una parvenza di ordine e progresso. Ma la realtà, quella cruda e disincantata, ci mostra un panorama diverso: l'uomo è, in ultima analisi, una creatura dell'atto di credere. Crede per comodità, crede per inerzia, crede per paura, crede per appartenenza. E in questo atto di credere risiede la sua forza e la sua più grande vulnerabilità. La conseguenza più radicale di questa dinamica è che nessuno pensa più realmente. O, per essere più precisi, il pensiero reale, quello autonomo, critico e scevro da condizionamenti, è diventato una rarità, un esercizio per pochi, spesso ostracizzati o ignorati. La società moderna, con la sua sovrabbondanza di informazioni e la sua rapidità di consumo, esaspera questa tendenza. Siamo costantemente bombardati da "verità" preconfezionate, da narrazioni che ci vengono presentate come assolute, e la fatica di decostruirle è troppo grande. È più facile credere, obbedire, e lasciarsi trasportare dalla corrente. Questa è una chiamata a riflettere sulla natura della nostra "razionalità" e sul prezzo che paghiamo per la nostra innata tendenza a delegare il pensiero. Se il futuro dell'umanità dipende dalla capacità di discernere la verità dall'errore, allora siamo di fronte a una crisi profonda. Una crisi che non riguarda la mancanza di informazioni, ma la mancanza di volontà, o forse di capacità, di elaborarle criticamente. L'era dell'Atto di Credere è qui, e le sue implicazioni sono solo all'inizio.



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