In un regno lontano, viveva un re potente e magnifico, la cui corte era ricca di splendore e i cui domini si estendevano a perdita d'occhio. Il re era orgoglioso della sua posizione, della sua ricchezza e della sua autorità. Credeva di essere al culmine della felicità e del potere, circondato da adulatori e da ogni genere di lusso.
Non lontano dal palazzo reale, in un'umile dimora, viveva un derviscio (un asceta Sufi) di grande saggezza, che aveva rinunciato ai beni materiali e viveva una vita semplice, dedicata alla meditazione e alla ricerca della verità. Il derviscio era noto per la sua serenità e la sua pace interiore, che non sembravano scalfite da alcuna preoccupazione mondana.
Un giorno, il re, sentendo parlare della fama del derviscio, decise di fargli visita, mosso da curiosità e, forse, da una punta di sfida. Voleva mostrare la sua magnificenza e la sua grandezza a quest'uomo che, a quanto si diceva, non desiderava nulla.
Il re arrivò alla modesta casa del derviscio accompagnato dal suo seguito sfarzoso. Trovò il derviscio seduto per terra, con un sorriso sereno sul volto, intento a sgranare dei datteri. Il re, abituato a essere accolto con riverenza, rimase sorpreso dalla semplicità e dall'indifferenza del derviscio alla sua presenza regale.
"Derviscio," disse il re, con un tono che mischiava condiscendenza e curiosità, "io sono il re di queste terre. Possiedo ricchezze infinite, eserciti potenti e sono venerato da milioni di persone. Tu, invece, non hai nulla. Vivi in povertà, senza beni né potere. Dimmi, cosa pensi di tutto ciò? Non senti invidia per la mia posizione?"
Il derviscio, con un sorriso ancora più ampio, rispose: "O Re, in verità tu possiedi molto e sei in una posizione di grande potere. Ma dimmi, tu dormi la notte?"
Il re, confuso dalla domanda inaspettata, rispose: "Certo che dormo! Come ogni uomo."
"E mentre dormi, o Re," continuò il derviscio, "sogni forse di essere ancora il re, con tutte le tue ricchezze e i tuoi sudditi fedeli?"
Il re rifletté per un momento e poi disse: "No, a volte sogno di essere un pover'uomo, o un mercante, o un contadino... a volte i sogni sono confusi e non hanno senso."
A quel punto, il derviscio guardò il re negli occhi e disse: "Ecco, Re. Per me, la differenza tra la mia veglia e il mio sogno è minima, poiché in entrambi sono me stesso e non mi illudo di essere altro. Ma per te, la differenza tra la tua veglia e il tuo sogno è abissale. In veglia sei il grande re, ma nel sogno puoi essere il più umile dei mendicanti. E quando ti svegli, la tua vanità si ricostruisce, ma solo fino alla prossima notte. Chi dei due è dunque più libero? Chi dei due è più vicino alla verità della propria esistenza?"
Il re rimase in silenzio, colpito dalle parole del derviscio. Per la prima volta, la sua illusione di grandezza e la sua vanità furono messe in discussione non dalla forza o dalla minaccia, ma dalla semplice e profonda osservazione della realtà. Cominciò a comprendere che la sua identità di "re" era solo un ruolo temporaneo, un'illusione che svaniva ogni notte nel sonno, mentre la vera essenza del derviscio, la sua pace interiore e la sua autenticità, rimanevano costanti.
Significato Esoterico
Questa storia Sufi esplora profondamente i temi della vanità, dell'illusione dell'identità basata su fattori esterni (ricchezza, potere, status) e della ricerca della vera identità e libertà interiore.
La fragilità dell'identità esteriore: Il racconto sottolinea come la nostra identità e il nostro senso di valore siano spesso legati a ruoli, possedimenti o riconoscimenti sociali, che sono effimeri e possono dissolversi (come nel sonno, o nella morte).
La vanità come ostacolo alla verità: La vanità del re gli impedisce di vedere la sua vera condizione e lo rende schiavo delle apparenze. La sua felicità è condizionata da ciò che possiede, non da ciò che è.
La libertà dell'essere autentico: Il derviscio, avendo rinunciato alle illusioni del mondo, vive in uno stato di autenticità e pace, indipendente dalle circostanze esterne. La sua identità non è legata a ciò che ha, ma a ciò che è.
La saggezza nella consapevolezza: La storia invita a riflettere sulla natura transitoria della vita e dei nostri ruoli, spingendoci a cercare una verità più profonda e una pace che non dipenda dalle fluttuazioni del mondo esterno. L'uomo che immagina di essere chi non è, vive in una prigione dorata di illusioni, mentre colui che accetta la propria natura essenziale, al di là dei ruoli, trova la vera libertà.
Questo racconto, tipico della tradizione Sufi, non si limita a un semplice ammonimento, ma invita a una profonda introspezione sulla natura dell'io e sulla ricerca della liberazione dalle catene dell'illusione. Dalle antiche favole di Esopo alle complesse parabole Sufi e agli insegnamenti profondi di Gurdjieff, l'umanità è stata costantemente messa in guardia contro la vanità e l'illusione di sé. Sebbene separati da millenni e da contesti culturali diversi, questi filoni di saggezza convergono su un punto fondamentale: la pericolosità dell'uomo che immagina di essere ciò che non è. La ranocchia di Esopo, che si gonfia fino a scoppiare nel tentativo di eguagliare il bue, è l'archetipo della falsa identità basata sulla vanità. È una metafora cruda e immediata delle conseguenze distruttive quando si ignorano i propri limiti naturali e si rincorre un'immagine distorta di sé. La sua implosione fisica è il simbolo della rovina che attende chi si allontana troppo dalla propria realtà essenziale per inseguire un'illusione di grandezza o importanza. Le parabole Sufi approfondiscono questa tematica con una ricchezza spirituale e psicologica. La storia del Derviscio e del Re ne è un esempio lampante. Il re, immerso nella sua magnificenza e nel suo potere, è prigioniero della sua stessa vanità. La sua identità è legata indissolubilmente ai suoi possedimenti e al suo ruolo, un'illusione che crolla ogni notte nel sonno, quando si ritrova ad essere un uomo comune nei suoi sogni. Il derviscio, al contrario, ha rinunciato alle apparenze e vive nella verità della sua Essenza, sperimentando una pace e una libertà che il re, con tutta la sua ricchezza, non può nemmeno immaginare. Qui, la vanità non porta a un'implosione fisica, ma a un'esistenza frammentata e a una cecità spirituale, impedendo al re di riconoscere la transitorietà del suo potere e la vera natura della sua esistenza. Georges Gurdjieff, nel suo "Lavoro" (il "Quarto Via"), esplora questa tematica con una profondità psicologica e spirituale. Egli descrive come l'essere umano viva in uno stato di "sonno", dominato da una "Falsa Personalità". Proprio come il re Sufi è identificato con il suo trono e la sua corona, l'individuo nel sistema di Gurdjieff è intrappolato da strati di autoinganno che gli impediscono di vedere la sua vera Essenza.