Il concetto di Attore Oggettivo sviluppato dal maestro spirituale G.I. Gurdjieff, elemento cardine del suo insegnamento noto come "Il Lavoro" o la "Quarta Via," non è affatto riducibile a una semplice abilità scenica. Al contrario, è l'espressione massima dell'essere umano risvegliato e pienamente integrato. Gurdjieff eleva l'arte del teatro dalla sfera del mero intrattenimento soggettivo a quella di una disciplina sacra e di un veicolo per lo sviluppo interiore e la trasmissione di verità oggettive. La performance dell'attore, in questa visione, è intrinsecamente legata al suo grado d'essere e al suo livello di coscienza. L'Attore Oggettivo è definito unicamente dalla sua capacità di esercitare una Volontà Unica e cosciente, che è la manifestazione di un "Io" reale e unificato, in netto contrasto con la frammentazione psicologica dell'uomo comune. Per raggiungere l'oggettività artistica, la conoscenza dei tipi umani è assolutamente preliminare e fondamentale. Non si tratta di una conoscenza superficiale, ma di una comprensione profonda e quasi matematica delle leggi che governano le reazioni psicologiche di ogni "tipo" di uomo. Questa conoscenza è essenziale perché permette all'attore di sapere con esattezza quali insiemi di associazioni (pensieri, emozioni, gesti) sono caratteristici di un particolare tipo umano. Questo sapere pratico funge da mappa precisa per la Volontà Unica dell'attore, che diventa capace di attivare volontariamente le associazioni corrispondenti in ogni suo centro o "cervello" — il Centro Intellettuale per i pensieri specifici del personaggio, il Centro Emozionale per i sentimenti calibrati e il Centro Motorio/Istintivo per i movimenti e le posture precise. L'azione dell'Attore Oggettivo è, di fatto, un'operazione chirurgica interiore: un controllo totale sui propri meccanismi psicologici, reso possibile solo da un "Io" reale unificato, l'unico in grado di dirigere i centri simultaneamente e in armonia. Cruciale in questo processo è che la manifestazione esteriore dell'Attore Oggettivo non è un rivestimento superficiale e separato. Al contrario, la sua azione esteriore sgorga direttamente e inevitabilmente dall'interno, come logica e necessaria conseguenza dell'attivazione volontaria e mirata delle associazioni dei centri caratteristiche di quel determinato tipo umano. Non si tratta di una simulazione esterna, ma di un'incarnazione cosciente sostenuta da un'attività interiore coerente. Quando l'Attore Oggettivo attiva nel suo Centro Emozionale le associazioni corrispondenti a un sentimento specifico del personaggio, la sua espressione facciale e la postura del suo corpo (Centro Motorio) manifesteranno quel sentimento con precisione oggettiva, perché l'azione è partita dal controllo interno. Il paradosso e la vera maestria risiedono nel fatto che l'attore deve eseguire questa manipolazione interna senza cadere nell'identificazione con il contenuto che sta creando. Egli attiva la paura o la rabbia nel Centro Emozionale del personaggio, ma il suo "Io" reale rimane non identificato con quell'emozione; egli osserva la passione mentre la crea e la manifesta, mantenendo la sua base interiore intatta. Questo distacco è il cuore dell'esercizio di recitare un ruolo esteriore restando liberi interiormente, ed è la prova definitiva del controllo sulla propria macchina psicofisica, accessibile solo attraverso il continuo Ricordo di Sé e un serio Sviluppo Interiore. L'antitesi di questa figura è il pessimo attore, la cui performance è superficiale e senz'anima, condannata alla soggettività e alla sterilità artistica. Questo attore non possiede la conoscenza dei tipi umani in senso oggettivo, né ha un "Io" reale in grado di dirigere i centri; la sua recitazione è basata sull'imitazione esteriore o sull'affidamento alle proprie reazioni automatiche. Egli tenta di riprodurre l'apparenza esteriore — i gesti e le intonazioni — ma interiormente i suoi centri sono disordinati, dominati da pensieri vaganti o da emozioni personali che nulla hanno a che fare con il personaggio. Il suo difetto più grave è la totale identificazione con il ruolo; si lascia prendere dalle associazioni e dai sentimenti, agendo in uno stato di incoscienza, nel "sonno" della sua coscienza. L'attore identificato è privo di controllo, mosso e dominato dalle reazioni meccaniche anziché esserne l'agente cosciente. Perdersi nel ruolo, inoltre, non produce alcuna crescita interiore, rafforzando invece la Personalità (i falsi "io" acquisiti) a spese dell'Essenza. Secondo Gurdjieff, l'arte e in particolare il teatro, ha subito un profondo e dannoso processo di degenerazione nel corso della storia umana. Egli sosteneva che il teatro greco stesso fosse già caduto preda di questa decadenza, che definiva con un termine ironico e dispregiativo: "drammaturgite". Con questa espressione, Gurdjieff intendeva una vera e propria "malattia", caratterizzata da un'enfasi eccessiva e ossessiva sulla mera drammaturgia — ovvero l'intreccio, la trama e l'espressione emotiva superficiale — a scapito del suo scopo interiore e trasformativo. Questa fissazione riduceva il teatro a semplice intrattenimento o a veicolo per l'auto-indulgenza emotiva dell'attore e del pubblico, perdendo ogni valore esoterico o evolutivo. La critica di Gurdjieff si fondava sulla distinzione fondamentale tra Arte Soggettiva e Arte Oggettiva. L'arte moderna e la drammaturgite rientravano nella categoria soggettiva, poiché erano un prodotto delle emozioni, delle opinioni e delle accidentalità psicologiche dell'artista. L'effetto di quest'arte sullo spettatore è quindi casuale, variabile e legato al gusto personale. In netto contrasto, l'Arte Oggettiva è un'arte basata su leggi precise e calcoli matematici universali. Similmente alla scienza, essa produce un effetto invariabile e calcolato su chi la percepisce, indipendentemente dalle sensazioni personali dell'artista. Questo tipo di arte non è creato per l'espressione e l'intrattenimento, o per comunicare messaggi o concetti soggettivi, ma per la trasmissione della conoscenza oggettiva, del sapere esoterico. Gurdjieff affermava che questa forma di teatro era esistita realmente in alcune civiltà antiche, citando come esempio l'antica Babilonia. In questi contesti arcaici, il Teatro Oggettivo era una pratica sacra, uno strumento di lavoro su di sé e di trasfigurazione per la comunità. La critica di Gurdjieff al teatro si estende alla sfera morale e psicologica dei pseudo-attori, spesso dominati da tratti tossici come la vanità, l'egocentrismo e il narcisismo. Queste caratteristiche sono espressione di una Personalità ipertrofica che ha soffocato l'Essenza. Queste pulsioni egoistiche, mirate alla gratificazione esterna e all'ammirazione, sono l'antitesi del vero Attore Oggettivo, che cerca l'annullamento del falso sé per permettere alla verità di manifestarsi. Per Gurdjieff, l'arte oggettiva non era intesa per l'intrattenimento, ma per la trasmissione di verità e per il risveglio dello spettatore. Il vero teatro era in origine inseparabile dalla pratica interiore e dalle scuole iniziatiche, dove gli attori, che erano iniziati, usavano la scena per eseguire rituali in grado di spingere lo spettatore all'osservazione di sé o per suscitare in lui "sentimenti religiosi". L'Attore Oggettivo è l'erede di questa tradizione: la sua maestria scenica è la prova esteriore di un'armonia interiore raggiunta, di una Volontà Unica capace di orchestrare l'intera macchina psicofisica per manifestare la verità in modo oggettivo. L'essere attori, in senso gurdjieffiano, significa raggiungere l'armonia totale dei propri centri, diventando capaci di esibirsi nella vita e sulla scena con piena coscienza e distacco, incarnando la massima aspirazione del Lavoro: trasformare l'uomo meccanico, la non-entità, in Uomo Reale.
Gurdjieff: L’Attore in Scena e il Teatro Psicologico
(di Anthony Blake)
Il teatro ritrae l’uomo a se stesso. Gli attori agiscono per conto del pubblico per mostrare qualcosa di sé. Anche nello spettacolo più blando, il pubblico è chiamato a una condizione insolita, lontano dalla vita ordinaria, in cui la sua empatia dev’essere temperata con il distacco, la sua identificazione con l’osservazione. Se il teatro deve insegnare, allora deve toccare e risvegliare ciò che abbiamo visto in noi stessi e negli altri, soprattutto nell’osservarci nella nostra drammatica esistenza, fatta di imprevisti, conflitti, pesi e crisi nelle proprie scelte. Il legame tra l’osservazione di noi stessi e l’osservazione degli altri è la chiave del carattere significativo del teatro. Si basa sulle incertezze della comunicazione e sulla consapevolezza di un’intera azione. Nello stato di vita ordinario, le incertezze sono oscurate dall’emozione, e la consapevolezza dell’insieme è frammentata dal pensiero. Il teatro va oltre la prospettiva solitaria di una “mente”; ci tocca nel crudo, perché ha luogo ORA. Ora è il momento dell’osservazione di sé; non c’è altro. Intrattenimento e insegnamento non sono necessariamente opposti, anche se il primo è pensato per “perdersi” e il secondo per “trovarsi”: per trovarsi bisogna prima perdersi. Ecco perché la “struttura” di un’opera teatrale ha bisogno di scavalcare la struttura condizionata del pubblico, per porre ai membri maturi del pubblico un problema che non possono risolvere se non entrando in ciò che viene loro mostrato e risvegliato. Non c’è un bisogno intrinseco di dispositivi grossolanamente drammatici come la rappresentazione di odio, omicidio, tradimento, o eventi soprannaturali. Il materiale della vita ordinaria può essere sufficiente se nel pubblico si attiva un dilemma centrale, qualcosa di abbastanza forte da portare in superficie questioni che sono state sepolte nel regno di “ciò che è irrilevante e inesplicabile”. Ma come può un’opera far emergere qualcosa dell’enigma della vita umana, dipendendo non solo dalla parola detta, dal pensiero articolato o dal sentimento, ma anche dall’osservazione inespressa di un momento di coscienza? C’è mai stata in tutta la storia del teatro una scena in cui un personaggio ha proclamato: “Sono sveglio! Adesso vedo cosa sta succedendo. Questa è la verità”. Forse si potrebbero trovare alcuni esempi; ma in questi, senza dubbio, sperimenteremmo semplicemente la manifestazione di una realizzazione privata individuale vincolata dalle stesse leggi di relazione e limitazione dalle quali è costruito l’intero dramma. Altrimenti, la recitazione CESSEREBBE DI ESISTERE a quel punto. Dio avrebbe parlato. In un certo senso è così in certi punti delle tragedie greche, nel “Peer Gynt” di Henrik Ibsen, nel “Faust” di Goethe, e così via. A quel punto la recitazione cessa di essere una recitazione. Potremmo assistere a un dialogo metafisico, ma non a uno spettacolo teatrale. La conseguenza archetipa di un’esplosione di coscienza sulla scena è “il resto è silenzio” di Amleto. La parola non detta di tutte le commedie è la consapevolezza degli attori, dei personaggi e del pubblico. Per estendere un punto, potremmo dire che “ciò che segue” dall’emergere della coscienza è il comico. La tragedia riposa sulla mancanza di coscienza e, nella sua forma più alta, sulla coscienza che si è innalzata attraverso la sofferenza. Quando il tragico è trascorso, c’è la commedia. Lo sfondo tradizionale di un simile pensiero è abbastanza evidente: in letteratura con la “Divina Commedia” di Dante, e nelle regioni orientali, con LILA o “recitazione” o “gioco” di Dio. C’è anche uno spostamento del centro psicologico. Nella commedia, gli opposti vengono mostrati assieme, l’appello è più all’intelletto e le risate seguono. Come spiega Rudolf Steiner, il pianto proviene dal centro del sentimento e la risata dall’intellettuale. È così che è nella vita, perché quando un uomo ha una certa osservazione di sé, in genere, impara a RIDERE DI SE STESSO. Questa capacità di ridere di sé è rara, infatti, tra i personaggi creati per la scena. Anche se proposto, un personaggio del genere richiederebbe un TOUR DE FORCE di recitazione per essere interpretato. Un tale carattere si avvicinerebbe ad un UOMO COSCIENTE, capace di essere consapevole di ciò che sta facendo e del perché; cioè, qualcuno energizzato e costantemente risvegliato dalle sue contraddizioni interiori. Un tale carattere non poteva essere mostrato proprio perché la coscienza non può essere mostrata. Stuart Holroyd ha compiuto un tentativo attorno al personaggio Gurdensky, modellato sul racconto di Kenneth Walker (allievo di Gurdjieff), e riguardante la “storia del mago” di Gurdjieff. Lo scopo di Holroyd era quello di ritrarre Gurdensky impegnato in ATTI IMPROBABILI. Un altro espediente potrebbe essere quello di far sì che gli altri personaggi mostrino risposte improbabili al personaggio cosciente. Lui stesso non sarebbe in grado di mostrare nulla del suo contenuto essenziale. Non c’è modo di sfuggire al fatto ultimo che la COSCIENZA NON PUÒ ESSERE IMITATA. L’arte drammatica richiede la rappresentazione della mancanza di coscienza, lavorando attraverso le forme di ignoranza, autoinganno, identificazione emotiva, e simili. Non sorprende che John Osborne, a un certo punto, abbia difeso appassionatamente Tennessee Williams, sottolineando che i suoi personaggi “nevrotici” ed “emotivamente paralizzati” erano davvero la norma della vita umana. Al pubblico viene data una pseudo elevazione a un ruolo consapevole; ma rischiano di perdere il punto a meno che non siano in grado di entrare nello stress del coinvolgimento effettivo nel corso degli eventi. L’osservazione senza svolgimento è un falso distacco. Ecco perché il drammaturgo gioca con il pubblico, permette un risveglio parziale dei suoi personaggi (di solito solo uno di essi) che scardina le aspettative meccaniche del pubblico passivo, e permette a quelli più in contatto con se stessi di vedere qualcosa di come le cose sono nell’uomo. Il corso degli eventi devia dalla linea prevedibile stabilita dal quadro. C’è qualcosa di inspiegabile, di sconosciuto al lavoro. Il Vuoto scruta il pubblico attraverso il dramma, e suggerisce che non sanno come vivere o di cosa tratta la loro esistenza. Sia il pubblico che il drammaturgo conducono queste deviazioni il più possibile entro i limiti del loro condizionamento culturale. Per il funzionamento più potente dell’azione centrale del risveglio, pubblico e scrittore devono essere in intima relazione e anche dissolvere i loro ruoli negli attori. Perché la condizione ultima è quella del METATEATRO. Un teatro realmente in vita nel momento, diretto dalla coscienza; il metateatro è prerogativa del maestro spirituale, maestro di coscienza e consapevolezza. È totalmente dissimile da eventi casuali o dagli “accadimenti”. È un metodo antico. È un metodo inevitabile considerando la natura dell’uomo e la sua vita. Perché l’uomo comune è già un attore nella vita e tutto l’artificio del dramma è ispirato nientemeno che dall’obiettivo di trascendere lo stato inconscio di finzione per raggiungere un’esistenza reale. Piangiamo e ridiamo mentre impariamo a simpatizzare più profondamente e a vedere più chiaramente. I vari culti teatrali moderni – “dell’assurdo”, “del crudele”, dell'”alienazione”, ecc. – sono le uniche ricadute prevedibili dell’obiettivo primario; sono tentativi di imitazione della realtà! L’obiettivo primario è quello cosciente, che non può essere imitato. Nella misura in cui siamo coscienti, o toccati dalla coscienza – sebbene di solito in modo frammentario e non afferrabile – avremo lo scopo di risvegliare la coscienza nella nostra arte drammatica. E così possiamo facilmente vedere che tutti gli scopi proposti per il teatro sono in qualche modo disonesti. Tutto ciò mette l’attore in una situazione non invidiabile (se non è un dormiente che intrattiene le persone addormentate). Ha poche basi per comprendere cosa potrebbe essere implicato nella sua arte. Viene trascinato in una fase di transizione, dalla vita ordinaria della finzione alla vita autentica di un essere cosciente, in cui la sua stessa finzione può PEGGIORARE. Deve correre dei rischi. Potrebbe benissimo diventare più ingannevole, più frammentato, più in contrasto con il proprio scopo invece che meno. Perlomeno, deve trovare un modo per ASSIMILARE le esperienze generate attraverso l’agire, in modo che possano migliorare il suo apprendimento della lezione che la vita porta. Il teatro è un laboratorio di indagine sulla vita fuori controllo e pericolosa per i tecnici (gli attori) che ne sono attratti. Perché agire? Pare che sia qualcosa che abbia a che fare con i seguenti pensieri: “C’è ovviamente l’incredibile attrazione della risposta di un pubblico, di riuscire effettivamente a effettuare una comunicazione anche se non è veramente mia, di superare la sofferenza del discorso e la solitudine della mia mente. Ma la recitazione mi dà anche la possibilità di crearmi al punto da essere libero da me stesso, permettendomi di imparare a dirigere le mie manifestazioni così come le comprendo”. Che molti attori agiscono male – mentre altri non soffrono questo trauma e disintegrazione – non pregiudica questa promessa; ma è solo una promessa, la via è disseminata di ostacoli e perversioni, la più grande delle quali è la mancanza di un vero scopo capace di cedere ciò che potrebbe essere possibile nel pubblico dominio del teatro, vincolato come dev’essere dalle strutture della cultura generale con tutti i suoi limiti e le sue distorsioni. L’attore deve anche affrontare il dilemma che un vero “teatro consapevole” non è possibile nello spazio pubblico, eppure è proprio di questo che ha bisogno. Ci sono stati tentativi, come quello di Peter Brook in Africa, di creare una sorta di metateatro attraverso uno straordinario incontro tra attori e pubblico che attraversa i quadri culturali; ma il teatro consapevole richiede un pubblico più consapevole. Un “pubblico” impreparato che partecipa al vero metateatro potrebbe benissimo essere traumatizzato fino alla follia (o fuggire dal “palcoscenico”). Il teatro consapevole non può essere una questione di esibizione pubblica, ma di partecipazione privata. L’osservazione efficace richiede quasi sempre la crisi. Il maestro spirituale, infatti, insegna attraverso le crisi che dirige. C’è un puro teatro di contemplazione in cui la sola presentazione di certi fenomeni ed eventi umani è sufficiente per consentire all’osservatore cosciente di realizzare certi fatti e leggi. Questi sono accennati nei rituali religiosi che sono essi stessi degenerati, o nelle modalità di un teatro di transizione incastrato tra la vita ordinaria e quella cosciente. I grandi poemi epici e i relativi rituali sono solo reliquie di un tentativo di educare le culture locali a IDEE UNIVERSALI sulla condizione dell’uomo; di solito, con il tempo, si perverte in un indottrinamento per rafforzare il pregiudizio locale quando scade in una cruda identificazione con ideali parziali. Proprio come i singoli uomini e donne recitano le loro pretese, incontrando inevitabili sofferenze e fallimenti o le assurdità della buona sorte, così è con le culture, i popoli e le nazioni. La presenza di queste collettività nella vita umana è veicolata da miti e simboli, profani e sacri; immagini dell’eroe, del capo e del traditore attraverso le quali la vita collettiva è rappresentata in una forma drammaticamente intelligibile. In altre parole, la storia è drammatica, e il drammaturgo è sempre una specie di storico, e, a prescindere che la sua mente sia impostata sulle vie della provvidenza, della dialettica o della contingenza, il quadro di una commedia è solitamente storico, e tale quadro è richiesto per l’azione dei singoli personaggi. Il “quadro storico” è il quadro dell’insieme collettivo entro il quale i protagonisti sono inseriti anche quando l’azione dell’opera è solo questione di giorni o addirittura di ore. I protagonisti hanno un’opzione di trascendenza; altrimenti appariranno come semplici burattini – a meno che l’autore non intenda mostrare che i suoi personaggi sono semplici burattini, A DISPETTO DI CIÒ CHE SENTONO E PENSANO, come si potrebbe sostenere nel caso dei greci. Il palcoscenico, quindi, è un simbolo del mondo in cui esistiamo, e sfida ogni membro del teatro (pubblico compreso) per le sue vaste potenzialità, tutte da realizzare in poche ore su pochi metri quadrati di tavola. La scarsa quantità di spazio fisico non dovrebbe tuttavia sovraccaricare la nostra attenzione; siccome il pubblico porta in teatro la sua mente piena delle vicende del mondo, l’attenzione verrebbe respinta dalla loro concentrazione in uno spazio di tipo potenziato. Martin Buber parla dello spazio superiore del teatro e di come “CIÒ CHE NON VIENE MOSTRATO” può diventare vividamente presente. Gli attori e il pubblico s’incontrano nello spazio di penombra attorno al palco (o anche nell’azione NASCOSTA sulla scena), cioè nello spazio implicito del mondo. Questa è una cosa spesso caricaturale compiuta dagli attori che si mescolano al pubblico nel bar del teatro. L’attore deve far “funzionare” il personaggio. È tutta una questione di rendere credibile il personaggio? Il personaggio dev’essere anche interessante e rivelatore, nonostante il fatto che la maggior parte delle persone, per come sono vissute nella loro vita, non siano né l’uno nell’altro. Dobbiamo considerare il fatto che se una persona media fosse ritratta realisticamente sul palco potremmo non crederci! Cosa ci farebbe un essere del genere in una commedia? Ci sono alcuni requisiti intrinseci dei “personaggi”, ossia l’essere ritratti in una condizione di quasi esposizione, l’essere costretti a rivelare qualche contraddizione o assurdità irrisolta, l’essere vicino all’orlo di qualche cambiamento di identità, e simili. Inutile dire che tutto questo potrebbe valere solo per il personaggio centrale, in quanto gli altri fungono da punti di riferimento della “normalità”. Tutto questo potrebbe essere considerato come una condizione di “perturbazione potenziata” in cui sta per essere osservato il fatto che essi non sono ciò che sembrano essere. Naturalmente, non è mai veramente osservato una volta per tutte. Come abbiamo detto, la coscienza può arrivare solo fino a un certo punto, altrimenti la commedia svanirà e l’attore crollerà nel SUO RUOLO DI ATTORE. Qualunque siano le rivelazioni fatte, devono essere della natura per velare un inganno più profondo. Ciò è fortemente indicato dalla recita nel dramma messo in scena da Amleto per portare le cose a un certo punto e svelare l’assassino. Rende Amleto il più enigmatico. L’attore, quindi, interpreta un uomo o una donna che entra in crisi, che è costretto a rivelare qualcosa di precedentemente nascosto. La forzatura della rivelazione è accompagnata dalla sofferenza e l’atto stesso della rivelazione LIBERA ENERGIA. Sia la sofferenza che l’energia (e la sofferenza è un tipo di energia) sono ridotte al minimo nella vita in cui la crisi è trattata come anormale. Non vogliamo che ciò che nascondiamo venga mostrato, proprio perché ci siamo impegnati a nasconderlo. I quadri psicologici sono quasi irrilevanti qui; ciò che è importante sono i fatti psicologici. Lo stato di crisi è una perturbazione fuori dalla norma. Quindi possiamo dire che gli attori si preoccupano di rappresentare lo “stato anormale” – così come ci piace considerarlo – in cui viene meno il “controllo” della vita. Così Edipo, Amleto, Brand, Blanche, ecc. La crisi, il crollo, ci rivela qualcosa di ciò che accade continuamente, in quell’intervallo di “fallimento” possiamo vedere ciò che è stato nascosto dal successo. Possiamo osservare come siamo DIVISI CONTRO NOI STESSI. Quindi, pensiamo in un modo e agiamo in un altro. I nostri pensieri non penetrano dove arrivano i nostri sentimenti. Anche quando una crisi arriva attraverso l’ignoranza, alla fine si rivela come dovuta a una mancanza di indagine, un aggrapparsi a ipotesi che non siamo mai stati costretti a fare. Il personaggio che dice: “Non l’ho mai saputo. Non me l’ha mai detto” – è in sostanza uno che inganna se stesso. Esige dall’altro ciò di cui lui stesso è incapace. Il progetto per l’attore è implicitamente terrificante. È quello di entrate in una modalità di disintegrazione. Questo è spesso oscurato nella tecnica di recitazione da una eccessiva concentrazione SULL’EMOZIONE – che è come trattare i sintomi ed evitare la questione della malattia stessa. Qualcuno deve esplodere in un attacco rabbioso contro un altro, ma l’altro non è la causa della rabbia, che sta uscendo da un crollo interiore di stati mentali precedentemente separati; stati INTERIORI di antagonismo. L’attore deve entrare in un crollo simile per essere “autentico”? La risposta è “sì” se è bloccato al livello delle emozioni. Ma, se può entrare più coscientemente nella “logica” della situazione, può andare in un modo del tutto diverso e osservare in sé spassionatamente lo stesso fenomeno in uno spirito di INTEGRAZIONE. Se la rabbia venisse creata da un livello più profondo di quanto non si SENTA di solito la rabbia, ci sarebbe la libertà, e la rabbia diverrebbe addirittura un aiuto alla coscienza. Dopotutto, una caratteristica molto comune dei maestri spirituali esperti nel Metateatro è il loro potere di “rabbia consapevole”, più convincente e avvincente di quanto possa mai essere la più magistrale rappresentazione teatrale. Gurdjieff, per esempio, era famoso per gli scoppi di rabbia capaci di raggelare le vittime; ma, in un attimo, avrebbe potuto “spegnerla” per sostituirla con uno stato di dolce cordialità. La padronanza delle emozioni in questo ambito non è un semplice “recitare”, ma un arricchimento stesso della gamma di esperienze. La principale caratteristica distintiva è L’INTENZIONALITÀ: la rabbia ordinaria è solo una reazione. L’intenzionalità esiste nell’emozione dominata da un intento che va al di là di ogni stato emotivo. Il vero distacco, infatti, non si trova in una vita di comunicazione blanda e neutra, ma in una manifestazione emotiva altamente carica e complessa che può essere utilizzata con la stessa naturalezza con cui usiamo il nostro tono di voce. Il povero attore che esce di scena per remare con il regista o con la moglie, può invece soffrire di un doppio disturbo. La sua tentazione immaginaria è quella di cadere nel credere che la sua capacità di mostrare stati emotivi sia la stessa cosa che padroneggiarli. Inoltre, più alto è l’intervallo in cui i livelli sono portati nella congiuntura esperienziale, più acuta e urgente è l’esperienza della realtà duale, fino a quando non viene raggiunto un confronto più centrale, il punto di separazione esplosiva, l’energia primordiale della Shakti. Il nostro senso primitivo del dualismo di mente e corpo è una versione debole e vaga dell’esperienza primaria, ma ci consente di acquisire una certa comprensione ed è cruciale per la vita della nostra forza. Il vecchio tema della mente e del corpo che ha dominato la filosofia per così tanto tempo in Occidente, diventa una vera questione personale una volta che ci rendiamo conto che ciò che pensiamo e ciò che diciamo non sono la stessa cosa anche quando vogliamo dire ciò che pensiamo. Nella vita ordinaria, questo fatto elementare è oscurato dalla stessa programmazione del comportamento sociale fortemente permeato di ipocrisia. Più precisamente, il nostro discorso è nel mondo degli altri e ci sentiamo determinati da loro. Le nostre menti ci appaiono private e nascoste. Da ciò derivano le vaste assurdità della vita umana. Quasi tutti i malintesi umani si basano, come ha sottolineato J. G. Bennett, sul giudicare gli altri da ciò che dicono e fanno, e noi stessi da ciò che comprendiamo. Tutti i giochi non riposano forse su questo malinteso? L’infinita frustrazione del linguaggio nella vita crea in noi una tremenda intensità quando siamo in grado di essere consapevoli del pensiero nascosto di un personaggio sul palcoscenico – di ciò che non può o non vuole dire, ma che dà il significato a ciò che infatti sta dicendo. Il “discorso” nascosto e privato di un personaggio è una preoccupazione centrale di ogni attore maturo (semplicemente in termini di “Cosa sta pensando quando lo dice?”). Non può solo pronunciare le parole scritte; perché il personaggio osserva gli altri e ha un potenziale di osservazione di sé in loro presenza. L’incapacità di “parlare con la mente” equivale a vivere in un mondo di sogni, uno stato che ha il potere di distruggere il caos nei rapporti con gli altri. L’atto di comunicazione tra personaggi significativi sconfina sempre nella condizione di crisi. La separazione tra mente e comportamento, il contrasto del dialogo effettivo con lo pseudo dialogo ‘interiore’, è solo la forma più bassa del dualismo che segna l’esistenza umana. Quella che viene chiamata “mente” ha una gamma di significati dalla banalità del dialogo interiore ai sentimenti e alle immagini più sottili. Fondamentalmente, è il mondo dei sogni. Essa, a sua volta, può essere osservata. La confusione sorge quando la mente è considerata cosciente. Nessuna psicologia tradizionale la considera tale, attribuendo la coscienza a un livello ancora più alto, al regno che comprende, in termini contemporanei, l'”inconscio” e le fonti di motivazione che scaturiscono dall’interno della persona stessa. Rispetto a questo livello superiore, la mente è inerte, programmata e inconscia. Dal livello superiore, la mente può essere vista come il corpo del sogno in cui fluiscono i nostri pensieri e sentimenti. È proprio da questa percezione che scaturisce il potere dell’agire. Gli stati interiori del nostro mondo privato sono programmi di risposta. Solo dalla prospettiva del superiore – l'”anima”, l'”intelletto”, o l'”ego”, secondo l’aspetto che scegliamo – possono essere compresi e realizzati i capricci della mente e dei suoi sogni. La mente non è manifesta a seconda dell’aspetto che selezioniamo, i capricci della mente e dei suoi sogni possono essere compresi e realizzati come non più privati di quanto non lo sia il corpo. La mente non è manifesta solo nelle parole, ma anche nel tono della voce, dei gesti e nei modelli di risposta agli altri. Per chi sa osservare non c’è bisogno di nessuna misteriosa telepatia – come impara ogni profondo attore – per realizzare e trasmettere contenuti mentali. La mente è uno dei suoi centri principali che si muove in reazione agli altri. Sopra la mente c’è il centro della ricerca di se stessi. Questa ricerca assume molte forme e si estende fino alle pulsioni che ci spingono a raggiungere ideali, ambizioni da realizzare nel mondo che ci circonda, oltre a raggiungere il più alto, il Vuoto. Ancora una volta, ci riferiamo al concetto di sé diviso. La ricerca di questo “sé” è sia verso “su” che verso “giù”, dentro e fuori. Ciò esprime la caratteristica centrale della perturbazione centrale, il nesso di contraddizione che è l’asse della nostra esistenza nel mondo con le sue preoccupazioni e dilemmi. Di tutti i drammaturghi, Shakespeare era il principale osservatore del sé diviso. La rappresentazione emotiva è del tutto inadeguata alla rappresentazione dei suoi personaggi. Al livello del sé diviso, l’attore supera la separazione tra imitazione e realtà, ed entra nel proprio stato di recitazione naturale con il quale recita se stesso. Tuttavia, la domanda del sé diviso si pone per la prima volta all’attore quando chiede: “Come è arrivato questo personaggio a questo punto?”. Questo significa chiedere molto di più di una storia immaginaria fino al punto in cui inizia la commedia. Gli eventi di una dimensione, o di un livello superiore, da cui è venuto il dilemma esistenziale particolare, visibile, saranno ciò attraverso il quale egli dovrà sperimentare se stesso. La vittima delle circostanze si è resa vulnerabile alle circostanze perché ha bisogno di affrontarle. Il personaggio è il suo stesso amico, comunicatore e nemico. L’attore, ovviamente, non deve seguire alcuna dottrina specifica riguardante le ragioni delle crisi esistenziali dei suoi personaggi – e nemmeno le sue idee in merito. Ma deve affrontare il problema a modo suo. Di fronte (o dentro) un personaggio che è in una condizione di collasso (dal punto di vista dei livelli inferiori di programmazione), deve chiedersi: “Cosa significa? Come è possibile in realtà? Come affronto questa possibilità in me stesso?”. Per un attore, ciò può tradursi in un sorgere di un profondo senso mitico – dal momento che il sé diviso esiste in un mondo di archetipi e modelli, più che in un mondo di persone e cose – e, per un altro, in una crisi esistenziale per la sofferenza di una scelta. La questione dell’interpretazione autentica sorge quando, qualunque cosa sia scritta dall’autore, questa non può determinare in che modo il personaggio dev’essere interpretato o anche cosa intende. Questo è affidato all'”interpretazione”. L’attore ha questo compito, deve creare ciò, e lo crea in base al proprio significato. Quando il significato dell’attore non cresce con la sua recitazione, l’attore è sminuito e banalizzato in se stesso, ed è portato inesorabilmente alla propria crisi per ricevere la lezione in una forma estrema. La lezione è semplicemente affrontare la questione, prenderla sul serio, sopportare il problema. I livelli al di là del sé diviso ci riguardano difficilmente qui, poiché sono al di là della portata del teatro. Riguardano domande che hanno a che fare con la nostra stessa esistenza planetaria e come la coscienza si plasma in forme di vita specifiche. Il dramma del teatro è dunque più del dramma che si scrive per il teatro. È un dramma per gli attori, che sono a rischio. Non sorprende che in certi periodi gli attori siano stati evitati socialmente come persone indesiderabili, pervertite dalla loro svalutazione di significato autoinflitta. Naturalmente, anche le società di questi periodi erano ipocrite, svilite nel loro stesso significato da una finzione collettiva; ma il punto dovrebbe essere registrato. L’attore deve affrontare un problema di sincerità che, se lo evita, peggiorerà le sue condizioni. La recitazione, la professione della finzione, può corrompere o liberare a seconda che si tratti di fingere o di imparare a vedere. In questa luce si può dire che il vero attore è colui che non agisce più; si esibisce semplicemente secondo la sua osservazione per un pubblico capace di auto-osservazione. Esprime l’esistenza umana attraverso la coscienza della contraddizione a tutti i livelli contemporaneamente. La sua coscienza e le sue manifestazioni sono intere e indivise.
I SABATI BABILONESI DI GURDJIEFF
Due degli istruttori di coscienza di questo secolo, persone che assumevano il ruolo di ponte tra uno stato più cosciente e la vita ordinaria, erano esperti di teatro. Tuttavia, sotto tutti gli aspetti visibili, erano agli antipodi – e questo esemplifica il principio che il più alto, il più individuale e unico, è l’uomo. Le persone relativamente risvegliate, Gurdjieff le presentò come delle caricature, e i “santi stupidi” sono noiosamente simili. I due “istruttori” di teatro erano Rudolf Steiner e George Gurdjieff. Il loro interesse per noi risiede nella loro pretesa di conoscere lo SCOPO ORIGINALE del teatro, per comprenderne le moderne distorsioni e anche il modo in cui un attore può lavorare consapevolmente. Mentre Steiner trascorse diversi anni come regista teatrale, le “rappresentazioni” di Gurdjieff erano dirette nella vita, come mostrano i vari resoconti dei suoi allievi. E’ Gurdjieff che nel suo bizzarro romanzo di “fantascienza” descrive la vita umana da una prospettiva cosmica, e fornisce un resoconto della recitazione cosciente che colpisce al cuore del dilemma dell’attore umano. Il romanzo, intitolato TUTTO E OGNI COSA (o “I racconti di Belzebù a suo nipote”) abbraccia più di due millenni di storia della terra, e nel capitolo “Arte” descrive il lavoro di una società speciale presente a Babilonia, e interessata alla ricerca sulla trasmissione di intuizioni significative alle generazioni future in tempi di crescente degenerazione. Il sabato la società si incontrava per creare e assistere a spettacoli che potevano essere prodotti e compresi solo da persone capaci di conoscere i propri stati interiori e capaci di concentrarsi su sequenze specifiche nel proprio flusso di esperienza. Erano esperti nella fusione di osservazione e auto-osservazione, e con la loro volontà potevano manifestarsi lungo linee da loro scelte. Gurdjieff divaga per fornire varie diatribe contro lo stato dell’uomo contemporaneo, contro gli attori e gli scrittori in particolare. Il suo punto di vista è simile a quello che abbiamo adottato nel sottolineare come la performance (nella forma delle sequenze) nasca dalle contraddizioni interiori che impediscono alla nostra vita di essere propositiva e diretta, coerente e in evoluzione.
“…consiste proprio in loro quella particolarità della loro comune presenza, ossia che mentre con una parte della loro essenza intendono sempre desiderare una cosa; nello stesso tempo con un’altra parte desiderano decisamente qualcos’altro; e grazie a una terza parte, fanno subito qualcosa nell’esatto contrario”.
Questo stato dell’uomo comune contemporaneo è in contrasto con quello degli antichi attori babilonesi. Il vero attore è in grado di generare una performance da dentro di sé. Deve prima ascoltare la totalità dei suoi vari flussi di esperienza tutti in una volta. Non c’è quiete della mente nel senso ordinario di oscuramento. È l’attenzione senza soppressione che mette a disposizione dell’attore un movimento dentro di sé. La seconda fase consiste nel creare un quadro per l’azione, che richiede l’esercizio della Ragione, termine usato da Gurdjieff per indicare l’intelletto che sta al di sopra della mescolanza dei pensieri e dei meccanismi di calcolo, uno strumento capace di afferrare quasi istantaneamente una logica e le sue implicazioni. Il terzo stadio richiede la capacità di concentrarsi su un certo dispiegarsi delle esperienze soggettive. Non è necessario supporre che queste tre fasi siano necessariamente consecutive. Dobbiamo capire che Gurdjieff sta sollevando direttamente la questione della libertà e della meccanicità. Riconosce che tutto ciò che “procede in noi” è programmato, ma che c’è un’opzione di libertà nel modo in cui ci manifestiamo. In una veste più familiare, potremmo presentare il problema come uno degli ATTI DELIBERATI DI SPONTANEITÀ; a cui, ovviamente, l’attore deve partecipare con il suo sentimento (secondo livello), con la sua coscienza (terzo livello), con i suoi stati, la sua Ragione, nonché con l’esercizio dei poteri corporei. Come ulteriore elemento in questo misterioso processo, i membri della società potevano deviare deliberatamente dal flusso meccanico degli eventi psichici in modo che, negli intervalli dell’imprevisto, potesse essere “inserito” qualcosa che trasmettesse una verità. Questo è l’equivalente pratico del nostro presunto “momento della verità” in cui abbiamo immaginato un personaggio che si è svegliato e ci ha detto (nella forma degli altri personaggi) cosa stava succedendo nella realtà. Nella nostra speculazione, abbiamo visto che questo avrebbe significato la fine della recitazione. Mentre nel metodo di Gurdjieff la recitazione continua lungo la linea meccanica e la coscienza viene trasmessa indirettamente. Com’è suggerito dalla modulazione inaspettata in un’opera sinfonica. Sottilmente e istantaneamente, veniamo sollevati in un grado di libertà non specificato che altrettanto rapidamente lascia il posto al nuovo ordine, alla nuova chiave (o struttura). È sperimentare questo genere di cose in noi stessi che ci insegna, perché l’insegnamento qui non è di semplice informazione esterna. Nel teatro pubblico troviamo che il drammaturgo e l’attore, ciascuno a suo modo, si trovano istintivamente a introdurre “incongruenze” nella linea di un personaggio. Senza queste, la recitazione sarebbe morta. È sia tenere conto delle contraddizioni di un’esistenza umana, sia trasmettere la verità essenziale della nostra libertà nella meccanicità; proprio come l’improvviso passaggio nella nostra linea di pensiero significa un momento di intuizione, anche la linea rimane riconoscibilmente “la stessa” e “nostra”. Quindi anche il personaggio sul palco rompe la cucitura del suo tipo al momento critico, nei momenti senza i quali sembrerebbe interamente un robot o un burattino. Le perturbazioni si dispiegano nelle nostre linee di manifestazione – nelle nostre “vite” – e sono opportunità di risveglio. Queste sono la fonte psicologica del drammatico, non come appare nello scontro di emozioni che è già uno “stato decaduto del drammatico”, un strascico, una mera parvenza di autentica crisi. Lo stesso Gurdjieff dedicò molta attenzione alla questione dell’origine cosmica del dramma umano, della psicologia con le relative domande sulla Realtà e su Dio. Nella recitazione cosciente, l’attore mette in opera la sua meccanicità, permettendo di manifestare ciò che si intende manifestare, l’insegnamento dell”invisibile”, dell”altro”, ciò che sostiene la vita umana e la informa: la fonte dei significati.
IL TEATRO PSICOLOGICO
Ci sono risonanze sorprendenti tra le tecniche pratiche degli attori di Stanislavsky e quelle di Gurdjieff che fanno parte della formazione dei suoi allievi. Inoltre, Stanislavskij una volta parlò così: “Solo l’attore il cui sviluppo procede lungo linee armoniose può, del tutto autonomamente e attraverso la propria esperienza acquisita, elevarsi passo dopo passo a una coscienza più ampia”. Ciò ha suggerito ad alcuni un debito di Stanislavsky nei confronti di Gurdjieff, e, ad altri, il contrario. James Webb nel suo libro “The Harmonious Circle”, indica altri possibili punti di contatto tra le idee di Gurdjieff e quelle di altri europei dell’est come Moreno (che scrisse “Il Teatro della Spontaneità”) ed Evreinov (che scrisse “Il Teatro della Vita”), l’inventore del monodramma in cui gli impulsi contrastanti di un singolo personaggio si svolgono sulla scena. È interessante notare che il punto di partenza di Moreno è stato il conflitto vissuto dagli attori tra la loro interpretazione di un personaggio e quella fissata nel testo drammatico dall’autore; e, in particolare, ha preso come esempio l’attrice Eleonora Duse. Il più grande contributo di Gurdjieff al teatro, tuttavia, fu la rappresentazione della sua stessa vita. Il suo approccio dichiarato alla vita era “recitare un ruolo esteriormente; interiormente non identificarsi”. In altre parole, ha vissuto la vita intenzionalmente come ha scelto di viverla e non come l’uomo comune, costretto a recitare qualche finzione oscura anche a se stesso. Il nesso stesso delle relazioni sociali è un costrutto artificiale in cui è fin troppo facile diventare un protagonista cieco. Tre persone che si incontrano creeranno una situazione sconosciuta a ciascuno di loro. È su questo che il teatro fa affidamento per il suo materiale. Eppure, allo stesso tempo, l’attore deve recitare la sua parte SAPENDO che è così. Questo suo sapere è l’elemento che può rovinare tutto. Se l’attore vuole raggiungere una totalità, l’energia e la qualità del suo sapere devono entrare nella performance; non può essere annientata da qualche rozzo ottundimento della conoscenza annegando nei movimenti e nelle emozioni del personaggio. Eppure, come può un attore, un uomo comune che nella sua vita continua a essere schiavo delle circostanze e delle relazioni, un cieco schiavo dei meccanismi della propria psiche, realizzare con effetto la semplice conoscenza che ha sul palcoscenico di “essere per recitare una parte”? L’attore che è sconvolto nella sua essenza da questa realizzazione sta diventando cosciente attraverso la sua recitazione. C’è un antico insegnamento del topo, spesso proposto da coloro che credono nella reincarnazione, ovvero che un uomo vive una vita dopo l’altra interpretando ruoli diversi fino a raggiungere il punto in cui inizia a rendersi conto che sta facendo proprio questo, sta semplicemente interpretando un ruolo, cioè, agire o fingere. Quindi è sulla strada per scoprire cosa c’è nel cuore della sua esistenza, cosa lo sta spingendo ancora e ancora a ripetere le prestazioni dell’essere umano. Se l’uomo comune deve rendersi conto del fatto che sta recitando un ruolo, l’attore deve rendersi conto che ciò che può fare sul palco non potrà mai essere più di ciò che può fare nella vita. In un certo senso, l’attore imita e recita se stesso e la propria situazione. Può sembrare che interpreti il personaggio attraverso se stesso, ma, allo stesso modo, interpreta se stesso attraverso i personaggi. L’unica caratteristica distintiva in tutto è il grado di coscienza della performance, nella vita o sul palco. Questo problema straordinario raramente viene energizzato al punto da essere importante per l’attore. Gli attori possono essere così preoccupati dei risultati delle loro esibizioni – approvazione e applauso – o del loro repertorio di tecniche, a tal punto che il problema non sorga mai in loro. Quindi, possono “dormire” sul palco, ammortizzati dal gioco delle emozioni generate dalle abitudini della vita imitativa.
