Pensare a Dio è per l’anima umana ciò che il respiro è per il corpo umano. Dico di pensare a Dio, non necessariamente di credere in Dio, che può o non può venire dopo. Dico: pensare a Dio. Ricordo chiaramente il momento in cui qualcosa dentro di me ha iniziato a respirare per la prima volta. Qualcosa dietro i miei pensieri, i miei desideri e le mie paure, qualcosa dietro me stesso, qualcosa dietro “Jerry”, che era ed è il mio nome dalla mia prima infanzia. Posso dirlo adesso, più di sessant’anni dopo la mia prima esperienza cosciente di questo secondo respiro… questo primo respiro dell’anima. Lasciatemi spiegare. L’anno è il 1943. Ho nove anni. È notte buia, piena estate a Filadelfia, calda, umida. Sono consapevole che mio padre è seduto fuori sui gradini. Ci siamo appena trasferiti in queste piccole stanze su questa strada spoglia e di nuova costruzione chiamata pretenziosamente Park Lane. La strada è un’isola di appartamenti ad affitto basso in un mare di ricchezza: vecchie case frondose, grandi e graziose, e tutte abbracciate a destra e sinistra dall’incomparabile Fairmount Park di Filadelfia, con le sue distese di foresta selvaggia e la sua impetuosa e mistica Wissahickon Creek. Scendo le scale sottilmente tappezzate e apro cautamente la porta a zanzariera, cercando di non disturbare il silenzio di mio padre. Avevo pensato di camminare lungo la strada nell’aria dolce dell’ingresso del parco. Ma questa volta, non so perché, senza una parola, mi siedo accanto a mio padre. Non l’avevo mai fatto prima. Le sue solitudini non erano mai invitanti, spesso a seguito di esplosioni di rabbia, o spesso semplicemente misteriose, e, per me, infantili e inspiegabili. Sempre più o meno spaventose. Mi siedo, notando che la sua testa è inclinata verso il cielo. Davanti a noi si estende un terreno libero, parte del quale mio padre ha coltivato come “orto della vittoria” (durante la seconda guerra mondiale il governo chiese ai cittadini di aiutare in tal modo lo sforzo bellico riducendo la pressione sull’approvvigionamento alimentare della nazione). In quel giardino, ora avvolto dalle tenebre, vivono mais, carote, cetrioli, pomodori, ravanelli, lattuga, scalogno, fagiolini e molto altro, piantati e non piantati, in parte contenuto dalla staccionata di legno e in parte fiorente e dilagante nel terreno selvaggio dietro il recinto: basse erbacce con foglie appiccicose color verde gelo, euforbia dai ciuffi bianchi, folle di denti di leone e, per me la cosa più importante di tutte, insetti brillanti e ronzanti, farfalle, alcune come fiocchi di neve svolazzanti, altre come fiori di campo volanti, e altri colorati come creature della giungla, tutti incredibilmente gentili e belli; lumache, ragni, e di tutto, la mantide religiosa verde pallido che appare improvvisamente dal nulla in un momento di grazia, come da un altro universo, così vicina alla foglia, così immobile, così complessa, così apparentemente cosciente e meravigliosamente mortale. E poi, più vicine al mio cuore, le cavallette – che ballano, saltano, volano, alcune cantano, alcune serie, altre buffonesche, altre grosse come il mio pollice, altre minuscole quasi come una briciola di pane nel palmo della mia mano. Mi ha portato lacrime di meraviglia e amore ai miei occhi vedere l’identica struttura intricata di questa improbabile creatura scritta sia nel più piccolo punto dell’essere che nel più grande membro individuale della specie. Là fuori, ora, occupando l’intera morbida oscurità: le lucciole... le chiamavamo “fulmini”. Centinaia di loro, intensificando l’oscurità, illuminandosi e svanendo casualmente nello stesso momento presente; intensificando il silenzio con i loro silenziosi ritmi di illuminazione. Come stelle tremolanti erano qui sulla terra. Ma è stato quando ho alzato gli occhi al cielo che, in quel momento, sono apparso. Non è successo subito. Con la coda dell’occhio vidi che mio padre stava ancora guardando in alto. E così ho mantenuto lo sguardo in alto, notando le stelle, alcune delle quali formavano costellazioni di cui conoscevo i nomi. Imitando mio padre, ho mantenuto lo sguardo in alto, solo ad osservare. E all’improvviso, incomprensibilmente, tutto in una volta, nonostante la pesante aria estiva che assorbe sempre la maggior parte della luce delle stelle – all’improvviso, come per magia, il cielo nero è stato immediatamente cosparso di milioni di stelle. Milioni di punti luce. Milioni di mondi. Mai, né prima né dopo, ho mai visto un cielo notturno simile, nemmeno nelle montagne remote nelle notti serene. Non era semplicemente che i miei occhi si erano abituati normalmente all’oscurità; era come se uno strumento di osservazione del tutto nuovo fosse stato attivato all’improvviso dentro di me. O, come sembrava anche, come se l’intero universo stesso mi aprisse improvvisamente le braccia dicendomi: “Sì, sono qui. Vedi, questo è quello che sono veramente! Ti piace il mio bel vestito?”. In un istante, meno di un istante, una potente e neutra corrente di elettricità mi percorse entrambi i lati della spina dorsale, così rapidamente che non ebbi un momento per pensarci o per una reazione emotiva. Sono passati molti anni prima che riuscissi a capire qualcosa di ciò che è successo attraverso di me. I miei occhi sono rimasti fissi su milioni di stelle, milioni di minuscole stelle con a malapena uno spazio nero tra di esse. Mi chiedevo di mio padre, ma non osavo voltare la testa per guardarlo, temendo che questi milioni di mondi sarebbero potuti in qualche modo svanire se avessi distolto lo sguardo per un attimo. Non so per quanto tempo abbiamo continuato entrambi a stare seduti lì, in silenzio. Ma alla fine, parlando con una voce che non avevo mai sentito da lui, disse: “Questo è Dio”. Qualcosa, qualcuno improvvisamente è apparso in me, nuovo e diverso come era nuova e diversa la voce di mio padre. Come se fossi stato chiamato all’esistenza da quella nuova voce che veniva da fuori e dentro di me. Lo ricordo ora chiaramente come se fosse appena accaduto: ho visto i miei pensieri rallentare, e in qualche modo diventare più lunghi e sottili, come una nuvola grigia che si attenua, dissolversi gradualmente, lasciando uno spazio quasi vuoto e oscuro nella mia mente. E poi, un pensiero, una domanda, è apparso e mi ha riempito la mente: che cos’è Dio? Cosa sono? Era la stessa domanda, era una domanda, un’esperienza. Eppure, allo stesso tempo, era anche una risposta, la stessa risposta. E solo anni e anni dopo ho cominciato a capire quell’esperienza e quella risposta: lo Sono. Ma lì, seduto sui gradini accanto a mio padre, non avevo quelle parole. Tenevo la testa alta e gli occhi rivolti all’insù, ma già milioni di stelle stavano svanendo misteriosamente come erano apparse. Come mai? Dove sono andate? E dov’è Dio? Che cosa è? Ho cercato di strizzare gli occhi, pensando che forse avrei potuto far tornare tutte le stelle. Un tranquillo desiderio sorse in me e fu proprio in quel momento che notai quell’altro “respiro” che avveniva in me. Forse era sempre stato lì, da quando erano apparse quelle milioni di stelle, ma solo ora aveva catturato la mia attenzione. Dissi a mio padre: “Posso chiederti una cosa, papà?”. “Che cosa? Riguardo a cosa?” – disse, senza voltare la testa. La sua voce era insolitamente calma. “Quando zia Bertha è morta… quando ero piccolo, e siamo tornati dal cimitero… ti ricordi cosa ti ho chiesto? E cosa hai detto?”. Non rispose subito. Gli stavo chiedendo della morte di sua sorella. C’erano sei fratelli nella sua famiglia: cinque fratelli e una sorella, Bertha, la più giovane dei bambini, amata teneramente e con protezione da tutti i figli. Quando lei era vicino ai fratelli, loro non urlavano e non litigavano quasi mai… lo notai anche da bambino. Era molto bella; ho fotografie di lei che me lo dimostrano, anche adesso molti decenni dopo. Ho fotografie di lei che mi tiene per mano quando stavo appena iniziando a camminare. In quelle foto posso vedere in me stesso quell’amore assoluto e la fiducia che ho provato per lei tutti i giorni che era con me. Aveva diciannove anni quando fu uccisa. Fu investita da un’auto mentre attraversava l’ampia strada davanti alla casa di famiglia dove vivevamo con mia nonna e tutti i suoi figli grandi. A quel tempo avevo circa tre anni. Le parole “Zia Bertha è morta” non avevano significato per me. Sapevo che gli insetti morivano, le piante morivano, gli animali morivano. Ma non sapevo cosa significasse che le persone morivano, specialmente le persone che erano amate. Quando ho sentito quelle parole provenire da mio padre, con mia madre che piangeva al suo fianco, mi sono calmato molto. Dentro e fuori. Questo è tutto. Il mio prossimo ricordo intensamente vivido è del cimitero. Sono in piedi accanto a mia madre che mi tiene per mano. È una giornata fredda e soleggiata. La bara è stata appena calata e viene ricoperta di terra. I membri della famiglia, molte, molte persone, stanno ad ascoltare il rabbino mentre canta in ebraico, mentre ondeggia avanti e indietro, avanti e indietro. Mio padre e i suoi quattro fratelli, i miei zii, sono in piedi proprio dietro il rabbino. In mezzo, vestita – o dovrei dire coperta – di stracci neri, sorretta per i gomiti dal figlio maggiore, zio Jack, e dal secondogenito, mio padre, sta mia nonna. Fu sorprendente vedere il suo corpo possente e robusto tremante e debole, bisognoso di sostegno, il viso bianco di sofferenza. I capelli grigio-neri che sgorgavano come elettrizzati da sotto gli sciolti stracci neri che le coprivano la testa. Avevo già imparato a conoscerla come una specie di drago, gli occhi feroci, un feroce neo scuro sul labbro, i suoi terrosi lineamenti russi con gli zigomi alti che premevano verso l’alto dando agli occhi quasi una parvenza orientale… servita sempre dai suoi figli arrabbiati che obbedivano a ogni sua parola, a ogni suo sguardo anche mentre le gridavano e ruggivano. Ma ora… com’era possibile? – non riusciva nemmeno a stare da sola; eppure – come era possibile? – la sua debolezza sembrava in qualche modo più forte della forza. Ricordo che non potevo sopportare di guardarla per più di un momento. Abbassavo gli occhi. E poi, mentre i miei occhi sono bassi, vengo spaventato dal rumore, dal tumulto e dal movimento improvviso tutt’intorno. Mia madre improvvisamente, dolorosamente, mi stringe la mano ed emette un gemito. Ricordo che avevo paura di alzare lo sguardo. E poi — un crescente bisogno di sapere, di comprendere cosa stesse succedendo dentro questa cosa sconosciuta che tutti chiamavano morte, e che ho capito davvero molto profondamente nelle ossa e nel cuore di mio figlio. E quando alzo lo sguardo all’inizio non riesco a distinguere quello che vedo. Vedo nuvole nere vorticose sulla tomba e sento qualcuno – capisco immediatamente che è mia nonna – urla in yiddish e russo cose che non riesco a capire. Si era liberata dai suoi figli, era saltata nella tomba e stava graffiando la terra mentre si continuava ancora a gettarne sulla bara. Ci vollero tutti e cinque i fratelli per strapparla via dalla bara e tirarla fuori dalla tomba. E anche tutti loro per trattenerla, mentre urlava alla tomba aperta alla fine della cerimonia. Tornato a casa, nella grande casa buia, i mobili ricoperti di lenzuola bianche. Scarpe tutte lasciate in veranda. Tutti, come me, senza scarpe. Vedere tutte le persone anziane con le calze ai piedi in qualche modo mi fa sentire che sono come me, un bambino. Specchi e dipinti tutti rivolti verso la parete. Al rabbino e ai parenti venivano serviti tè e dolci da mia madre e da alcune delle altre donne. Una delle vecchie, una delle mie prozie, mi offre una piccola torta. La prima volta nella mia vita che qualcuno mi ha “offerto” qualcosa. Le persone mi avevano dato delle cose, ma nessuno mi aveva mai offerto nulla. Adesso mi fa vagamente sentire un adulto. Conversazione morbida e mormorante. Mia nonna, con due donne più anziane accanto a lei, e con in mano un bicchiere pieno di tè caldo, è seduta sul divano a fissare e gemere. Mio padre e gli zii sono in piedi insieme, a parlare, nella veranda chiusa e illuminata dal sole adiacente al soggiorno buio. In autonomia, senza chiedere a nessuno, esco dalla mia scivolosa sedia di legno ed entro in veranda senza che nessuno mi presti attenzione. Sto accanto a mio padre e non provo assolutamente paura per lui. Ricordo di aver tirato la manica del suo cappotto. Mi guarda, dice qualcosa del tipo: “Cosa vuoi, Jerry?”. Ricordo vividamente quello che dissi, con voce forte, le lacrime che mi rigavano il viso: “Dov’è zia Bertha?”. A quel punto, i quattro zii smisero bruscamente di parlare e mi guardarono. Mio padre mi guarda in faccia. All’improvviso sembra giovane, giovane e potente, i suoi occhi brillano: “Lei è con Dio”. …Le mie parole sono sospese nell’aria notturna: “Ti ricordi?”. Ma mio padre non risponde. Rimane esattamente così... la testa inclinata verso il cielo. Ma secondo me è successo qualcosa di importante dentro di me. La mia mente iniziò a correre mentre allo stesso tempo il mio respiro diventò stranamente calmo in tutto il mio corpo. Da bambino, dall’età di circa cinque anni in poi, avevo iniziato precocemente a guardare libri di astronomia, diventando gradualmente in grado di leggere e comprendere parti del testo. Ho iniziato ad accumulare informazioni, fatti sul sistema solare, i pianeti, il sole e le stelle, divorando fotografie, implorando di essere portato al planetario, e, infine, parlando all’infinito dell’universo e di Dio con uno speciale amico d’infanzia. Quindi proprio ora, seduto sui gradini della facciata con mio padre, la mia mente iniziò a correre con domande e pensieri su Dio e la morte. Ma c’era qualcosa di potentemente diverso nel momento presente che lo rendeva diverso da tutte le mie precedenti curiosità e domande. Ciò che lo rendeva diverso era che ora, nel momento presente, il ricordo di ciò che avevo provato alla morte di mia zia e di ciò che avevo sentito tirando la manica di mio padre – quel ricordo mi stava salendo nel petto come il potere stesso della notte più buia stessa. Quel ricordo non era nemmeno un ricordo, era un’esperienza presente, presente come il cielo notturno, i fulmini, il suono improvviso dei grilli rumorosi. Ciò che era presente così potentemente in quel momento non era un ricordo – questa è una parola troppo debole – era il mio Sé, era quello che ero quando avevo tre anni – ciò che ero – no, chi ero. E sono. Quello che sto dicendo è questo (ed è della massima importanza se noi, o qualcuno di noi, dovrà mai affrontare la domanda su cosa sia Dio e cosa sia la morte): In quel momento, seduto sui gradini di pietra accanto a mio padre silenzioso, sono diventato due persone: una che pensa e si interroga con tutte le informazioni e la logica a mia disposizione, e l’altra che conosce, sente e brama nelle profondità del mio embrione e senza tempo. L’Individualità. E per tutto il tempo non c’è stata alcuna riconciliazione tra questi due esseri umani. Ho cercato più che potevo di pensare. Ho formulato una domanda dopo l’altra. Dio esiste davvero? Perché permette la morte e l’angoscia? Perché è invisibile? Perché permette che esistano le persone malvagie, che facciano la guerra e uccidano milioni di persone innocenti? La mia mente correva attraverso i libri che stavo leggendo: astronomia, filosofia, biologia, preistoria. La mente umana: Dio era la mente dell’universo? E l’universo è infinito? Cosa potrebbe significare? Anche la mente umana è infinita? Oppure era tutto – Dio, la religione e le cerimonie – irrazionale? Erano credenze, favole, o qualcosa del genere, per qualcun altro, per altre persone, non per me, non per la scienza, non per la filosofia. Mentre cercavo di perseguire i pensieri che eruttavano all’infinito nel mio cranio, e mentre cercavo di concentrarmi su di essi, ero anche profondamente consapevole, senza parole, del desiderio e della vibrazione nel mio petto, e della sensazione di essere che aveva accompagnato quelle milioni di stelle e il ricordo della morte di zia Bertha. Più cercavo di pensare, più diventavo consapevole della vibrazione senza parole nel mio corpo, più mi sentivo come due persone, e più sentivo qualcosa come un secondo respiro che avveniva dentro di me. E più acuta divenne la sensazione di essere due persone separate. Ciò che desidero dire in questo capitolo introduttivo, ciò che desidero proporre, è che quando un uomo o una donna rivolge la sua attenzione alle questioni della realtà ultima — che è essenzialmente la questione della natura di Dio — qualcosa si risveglia dentro di noi e ci chiama; quando un uomo o una donna dirige la sua attenzione su questioni di valore e obbligo – che sono anche nella loro essenza la questione della natura di Dio e del bisogno che Dio ha di noi – qualcosa dentro di noi si risveglia e ci chiama. Quel qualcosa che risveglia non ha interesse per i bisogni e le attrazioni materiali, mondane; nessun interesse per il piacere, o il successo, o il denaro, o di essere il primo. La chiamo l’anima (o il Sé) per mancanza di una parola migliore. Non è interessato a ciò che vuole l’io, non è interessato a ciò che vuole “Jerry”. Desidera solo vivere e crescere, essere e osservare. Di cosa ha bisogno, di cosa ho bisogno io per far crescere l’anima, il Sé? Il punto qui è che durante l’infanzia quest’anima, o Sé, a volte ci chiama con toni clamorosi; o davanti alla morte ci chiama spesso con toni rumorosi. Se ci facciamo inghiottire dagli impulsi e dalle reazioni condizionate del nostro egoismo, allora non arriveremo mai a comprendere cosa sia Dio. Comprendere cos’è Dio, cominciare a capire cos’è Dio, esige fin dall’inizio la presenza in noi stessi di ciò che Dio è. Intendo dire che Dio, o qualunque cosa chiamiamo realtà essenziale, deve già essere attivo nella nostra consapevolezza quando ci volgiamo a pensare a Dio. Forse un modo migliore per dire questo è dire che, se ci guardiamo e ci osserviamo, scopriremo che la presenza di una vibrazione più alta dentro di noi è già lì che attiva l’impulso a pensare alla domanda di Dio. Ma siamo troppo spesso insensibili a questa vibrazione interiore proveniente dal cuore dell’uomo, dall’anima embrionale in cui circola quello che si può chiamare il “sangue di Dio”. Non importa se neghiamo o affermiamo l’esistenza di ciò che il mondo convenzionale chiama Dio. Ciò che importa è solo che siamo profondamente e autenticamente interessati alle questioni della realtà ultima e del valore ultimo. Importa solo che siamo chiamati a cercare di essere onesti, profondi e buoni nel nostro pensiero e nella nostra vita. Possiamo giungere alla conclusione, come fece Freud e come molti altri di noi, che il mondo si fa illusioni su Dio e che queste illusioni sono velenose e pericolose per l’intera vita dell’uomo. Non importa. Ciò che importa è questa doppia esistenza, questa esistenza simultanea in se stessi di due nature, due impulsi quasi uguali e onorevoli: l’amore della Verità e del Bene e, allo stesso tempo, l’impulso a pensare in modo critico, logico. Sto dicendo che se perdiamo ogni contatto con questo elemento divino interiore presente in noi stessi, se perdiamo il contatto con questa vibrazione interiore, il nostro pensiero e la nostra azione nel mondo non ci porteranno da nessuna parte. Il nostro pensiero ci porterà o al cinismo o a un’assurda sopravvalutazione delle nostre facoltà mentali. Ci porterà a sviluppare, in un torrente impetuoso, invenzioni nella mente o nel mondo fisico – ideologie o tecnologie – che, allontanate dall’impulso dell’essere verso la coscienza e la verità, possono distruggere noi e la nostra terra. D’altra parte, se perdiamo ogni contatto e rispetto per i poteri e le funzioni del nostro sé socialmente condizionato – che ci è dato anche perché noi si possa diventare strumenti d’amore nel mondo in espansione degli esseri umani e nel mondo della natura, il mondo della natura che ha bisogno che diventiamo pienamente umani per servire esso stesso il Bene universale come un pianeta dotato di coscienza umana – se perdiamo ogni contatto con questa parte “orizzontale” della nostra natura umana; se ci ritiriamo inconsciamente nel misticismo egocentrico o nella “fede” ostinata e cieca, potremmo diventare come gli “dei” dell’insegnamento buddista tibetano, che, pur possedendo energie superiori, alla fine marciscono e soffrono più di qualsiasi altro essere creato nell’universo, e che creano più male e danno di qualsiasi altra forza nell’universo. Per me è stata una fortuna che lì, sui gradini di pietra, mio padre sia rimasto in silenzio: che lo abbia fatto intenzionalmente o meno non ha importanza. Mi ha permesso di vedere più chiaramente questa grande divisione dentro di me tra la mente ansiosa, pensante, esplicativa e la vibrazione del desiderio interiore, dell’essere interiore dentro di me. E mi ha permesso di vedere quello che chiamo il “respiro” dell’anima. Anni dopo, mi sono reso conto che c’era ovviamente, e proprio davanti ai miei occhi, qualcos’altro, vale a dire, un terzo qualcosa che stava effettivamente osservando questa divisione, una terza attenzione troppo fragile e sottile anche per essere discussa a questo punto, ma che in seguito avrebbe assunto le proporzioni di un’immensa, sconosciuta questione centrale nella mia vita e nella mia comprensione. Ma dopo essere diventato consapevole di questa strana, intima dualità dentro di me, in seguito ho iniziato a essere acutamente consapevole della sua presenza o assenza ogni volta che ho iniziato a pensare alle domande ultime – e mi sono impegnato in tali tentativi di pensare molto frequentemente come quando stavo crescendo, come molti di noi, a volte, soprattutto durante la nostra adolescenza. E col passare del tempo ho cominciato a essere intenzionalmente consapevole, anche se solo leggermente, del mio stato d’essere quando cercavo di pensare a Dio o alle domande ultime, ho osservato – dapprima vagamente, ma alla fine abbastanza chiaramente – che quando pensavo a Dio o alla realtà ultima senza alcun senso della vibrazione interiore del mio essere, poi il mio pensiero era semplicemente corso avanti verso complicazioni e “ingegno” senza scopo o senza sostanza. Sono diventato “intelligente”, o “brillante”, o “fantasioso”. E mi sono spinto al massimo per essere “giusto” o “originale. Ma quando quel desiderio e quella vibrazione speciali sono emersi per un momento nel mio cuore e nel mio corpo, anche debolmente, ho provato una disperazione per tutte le mie idee intelligenti: il mio successo filosofico aveva un sapore amaro e vuoto; la mia coscienza mi ha portato la sofferenza del rimorso, al quale per anni ho reagito con attacchi di depressione e autocommiserazione, o sogni sempre più fantasiosi sul mio valore intrinseco e sulle mie capacità mentali. E quando, senza sapere esattamente cosa stavo vedendo, ho visto in molti dei miei stimati amici e insegnanti questa stessa brillantezza e intelligenza spietata, è servito ad aumentare la mia disperazione e il mio cinismo sulla verità e sul Bene. Sempre di più, per come la vedo ora, questo pensiero spietato su Dio e sulla realtà ultima domina la mente del mondo contemporaneo. Con Dio o contro Dio, “credenza” o “ateismo”: Non fa differenza a meno che il desiderio interiore – o come vogliamo chiamare la causa e la fonte del “secondo respiro” – non sia presente. E può essere così facilmente lì, così come può essere altrettanto facilmente coperto e ignorato, forse per il resto della propria vita. Dio o non Dio, “credenza” o “scienza” – non fa alcuna reale differenza per la mia vita, a meno che il richiamo del Sé e il suo bisogno di “respirare” non siano ascoltati e, alla fine, rispettati. Non solo il pensiero sulla realtà ultima non può fare differenza per il mondo o per la mia vita personale, se non ascoltiamo e rispettiamo la chiamata del Sé, almeno quando iniziamo a pensare, ma un tale pensiero vuoto può far crollare il nostro mondo personale e collettivo, e persino la nostra stessa terra. Quando il Pensiero corre davanti all’Essere, una civiltà corre verso l’autodistruzione.
Di tutte le indicazioni e i suggerimenti di Gurdjieff per l'attuazione pratica delle sue idee, quello che sembra essere stato più persistentemente frainteso è la sua raccomandazione di "cercare di non esprimere negatività". A prescindere da quanto spesso si possa ricordare agli studenti che il Lavoro potrebbe riguardare l'evoluzione psicologica, non si tratta di psicoterapia. Non si tratta di sopprimere o reprimere sentimenti, comportamenti e reazioni. Non si tratta di imparare a fingere di essere al di là della reattività. Non si tratta di migliorare la propria personalità per apparire una persona più gentile o più spirituale. Ho visto persone scoraggiate e frustrate con se stesse per anni, che si chiedevano se stessero fallendo, se non si stessero "impegnando abbastanza" quando riferivano che, nonostante tutti gli sforzi che avessero cercato di mettere in atto, continuavano a sperimentare periodicamente stati interiori di rabbia, ansia, risentimento, irrit...
